martedì 20 maggio 2008

UN PORTO

Un porto, un attracco.

Miraggio sognato nelle notti inquiete e burrascose, tra le pioggie dell'oceano in tempesta, tra i sibili sinistri delle bufere, tra la stoffa pesante delle vele, lacerate dal vento di tramontana, impregnate di sale e schiuma.

Fata morgana che appare tra il tremore dell’albero maestro e lo scricchiolio della chiglia.

Fermarsi, per riposare le membra, per rifoccillare il cuore. Fermarsi a calpestare la terra ferma, a lambire il cielo, senza più dover contare le nuvole, senza più dover fuggire da qualcosa di oscuro che corre più veloce di noi, senza più dover inseguire l'orizzonte che seduce e inganna, senza più doversi piegare agli umori di un mare iroso e capriccioso, che tanto dà e tanto toglie.

Ulisse invecchia, giorno per giorno, e sogna ancora la sua Itaca, illusione e incanto di deliri onirici, vago e mesto ricordo ormai confuso e sbiadito come un disegno su un sasso consumato dalla sfrontatezza delle onde. Sogna e intanto prosegue il suo cammino, la sua odissea, tra torvi ciclopi e ammalianti sirene. E questa eterna ambivalenza, tra andare e restare, tra odiare e amare, spezza le vene e toglie il respiro. Ma questo è la vita. Perchè è dalle polarità contrarie che si genera l'esistenza, e senza il buio non esisterebbe nessuna luce.

Antitesi continue e stremanti, altalene che danzano in quest'aria ambigua, carica di odori, colori e dolori.

E a ciò mi piego, smetto di pormi domande e di cercare risposte. Smetto di torturarmi e trastullarmi tra gli aculei affilati della mente, che svia e confonde, che travia e logora.

Stanca e prostra questo viaggio perenne, senza fine, senza scali, senza meta, senza condoni, senza più occhi da toccare, senza più braccia da stringere e respiri da origliare, nella dolcezza senza fine del silenzio.

Un fuoco divampa ancora nel fondo di uno sguardo sperso e irrequieto, ma si spegne giorno per giorno, perchè la nostalgia è come un tarlo, che si insinua nel cervello e nel cuore, scava piano ma inesorabile, e arriva a divorare anche le ossa.

Un'àncora si aggroviglia fra le viscere degli abissi, spostando frantumi di azzurro. Finalmente un lembo di terra. Finalmente uno scorcio di calore, un sentiero abbarbicato tra il profumo dei pini e il giallo dei limoni.

Un faro, uno spiraglio abbacinante, che illumina il nero della notte.

Ma l'àncora è di cartapesta, e si scioglie come rugiada al sole, e la luce un singulto evanescente, che si infrange come una goccia di cristallo schiacciata da dita maldestre.

Il buio ritorna ad avvolgere i pensieri. E un carro nel cielo non basta a fuggire via.

Non basta la forza che affonda le radici nella Vita, perchè quelle radici ormai sono sfibrate e sfilacciate, consunte da delusioni, sconfitte, tradimenti, sofferenze. Perchè la forza si è spenta, si è trasformata in fragilità diafana e opaca. Troppa melma ha adulterato la vividezza del fuoco.

E allora quale Itaca, quale Penelope, potranno ancora tornare o arrivare, se Ulisse deciderà di capitolare?

Quante vite possiede l’araba fenice?


Chiara Manganelli

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