sabato 18 settembre 2010

“DESERTI DI PIETRA” DI SILVIO ZANGARINI

Deserti di pietra” è un viaggio attraverso una Torino magica, esoterica e selenitica.

Silvio Zangarini ci conduce in un universo onirico fatto di luci e ombre, di ciottoli e strade, di suggestioni emblematiche e misteri seducenti.

Il sorprendente equilibrio compositivo delle sue opere non è mai statico, bensì estremamente dinamico; è frutto di una doviziosa ricerca stilistica e di un raffinato gusto estetico, e sgorga da un fermento vibrante e vitale, accompagnato da un'armonia primordiale e perfetta che sa svelare la bellezza contenuta in nuce in tutte le cose, carpita dall'occhio dell'artista nel momento in cui essa si palesa.

Le sue fotografie, se guardate in modo frettoloso e superficiale, potrebbero apparire come mere riproduzioni tout court di alcune piazze di Torino, e invece racchiudono un livello di lettura molto più sottile e profondo: si addentrano nelle viscere di questa città ambivalente e affascinante riuscendo a cogliere la sua essenza nascosta.

Zangarini usa il linguaggio apparentemente ortodosso delle immagini e lo rimpasta, lo plasma con la materia impalpabile di cui sono fatti i sogni, facendosi aedo di una semiologia del tutto personale e originale, che parte dal mondo fenomenologico per raccontare i misteri affondati nei territori segreti dell'anima umana. Un viaggio duplice, quindi, non solo urbano e tangibile ma anche individuale e trascendente, che si snoda alla ricerca di se stessi nel mondo, in virtù di un rapporto inscindibile con lo spazio fisico che la nostra anima abita, ma che oltrepassa la realtà transeunte per avventurarsi altrove, dove non esistono né spazio né tempo, in un luogo sospeso e surreale.

Lo scatto della sua macchina fotografica, fermando l'attimo, ne sottolinea sia la sua intensità unica, eterna e irripetibile, sia il suo inesorabile fluire verso uno spazio temporale e mentale che ancora deve compiersi, e che attende altri attimi affinché l'ordito sfaccettato di una storia possa essere tessuto.

Deserti di pietra” è dunque uno splendido encomio alla bellezza elegante e notturna di Torino, ma anche e soprattutto alla bellezza che appartiene a ognuno di noi, alla vitalità e alla curiosità che ci permettono di ritrovare l'Ulisse che dimora dentro la nostra anima. Il viaggio è un istinto ineludibile e ontologico, così come è ineludibile l'intrinseca dicotomia tra movimento e stasi, che ci spinge, da una parte, a dispiegare le vele per andare alla ricerca di ciò che è ignoto e anagogico, e, dall'altra, a custodire e preservare un porto a cui poter attraccare, un'Itaca a cui poter fare ritorno in caso di burrasche e tempeste, perché il senso della nostra identità è sempre indissolubilmente ancorato a tempi e a luoghi, e si può partire solo sapendo che si può tornare da qualche parte per ritrovare qualcosa.

UN OSSIMORO PITTORICO: IL VERISMO INTIMISTA DI ANTONIO SGARBOSSA


Non c'è via più sicura per evadere dal mondo che l'arte, ma non c'è legame più sicuro con esso che l'arte

J.W Goethe


La produzione pittorica di Antonio Sgarbossa si colloca in un territorio ambivalente, al confine tra un'oggettività naturalista, che ricalca una logica inferenziale e positivista, e una soggettività estremamente moderna, polifonica e “fotografica”. Mescolando sapientemente elementi “veristi” con scorci e sguardi squisitamente unici e personali, i dipinti dell'arista veneto fluttuano tra sogno e realtà, elargendo allo spettatore un punto di vista cangiante e originale, mai banale e scontato. E se è vero, come asserì Gilbert Keith Chesterton, che “la dignità dell'artista sta nel suo dovere di tenere vivo il senso di meraviglia nel mondo”, Sgarbossa adempie a questo compito in maniera esemplare.

A una prima analisi i suoi quadri sembrano raffigurare la realtà, ma, pur essendo evidente che nella sua poetica echeggiano risonanze di matrice realista e naturalista, è altresì innegabile che la sua ricerca artistica non si limita a una mera riproduzione sic et simpliciter del mondo fenomenico.

Osservando i paesaggi urbani di Sgarbossa si ha la sensazione di assistere a un ossimoro concettuale e percettivo: ciò che viene rappresentato, infatti, è incontrovertibilmente reale e tangibile, apparentemente oggettivo e inequivocabile, ma lo sguardo profondo e acuto di questo artista riesce a cogliere l'inconsueto racchiuso e raggomitolato dentro il consueto, l'eccezionale avviluppato nelle pieghe riottose della normalità, svelando e mostrando, attraverso tagli prospettici arditi e inesplorati, la bellezza tacita e latente delle cose, che quasi mai percepiamo, perché nascosta dinnanzi a noi. James Hillman affermò che il modo migliore per occultare qualcosa è proprio questo: metterla in evidenza, sotto gli occhi di tutti, cosicché, paradossalmente, essa scompaia, diventi invisibile per i più. Ma non per tutti, non per chi possiede il dono di una rara sensibilità capace di guardare oltre la coltre ingannevole dell'apparenza.

Sgarbossa si fa dunque esegeta e araldo di questa invisibilità per dissotterrarla e renderla visibile e decifrabile, restituendole vita, dignità e splendore, inficiando così il sillogismo, spesso in auge, secondo il quale quello che non si vede non esiste. Ma ci sono innumerevoli modi di percepire la realtà. Qual è, dunque, quello giusto? Diatriba filosofico-epistemologica che logora gli intelletti dalla notte dei tempi. Verrebbe da dire che l'unico modo giusto, o meglio, l'unico modo rilevante, sia il proprio, eppure anche questa tesi risulta farraginosa e insoddisfacente. E dove alberga la realtà? In quale degli infiniti sguardi possibili? In tutti e in nessuno. Ma in questa sede, più che considerare ciò che è giusto o sbagliato, ci interessa esplorare la portata estetica, creativa e simbolica che l'espressione artistica sottende. E nel caso di Antonio Sgarbossa la capacità di attribuire un senso sorgivo al mondo immanente si coniuga con una maestria tecnica e cromatica che suscita stupefacente appagamento estetico. L'uso delle luci e delle ombre ci ricorda i prodigiosi virtuosismi caravaggeschi, e l'impiego di colori soffusi e sfumati, che digradano dolcemente uno nell'altro senza mai dar luogo a violente fratture percettive, palesa un intimismo profondo e pregnante, potente ma discreto, e dona risalto e significanza ai particolari; è proprio qui che emerge maggiormente l'impronta verista di Sgarbossa, ma il suo è un verismo soggettivo, quasi onirico, perché la sua è una pittura interiore, che si esprime attraverso due processi embricati e interdipendenti: da un lato l'interiorità del soggetto è proiettata sul mondo e dall'altro il soggetto introietta la realtà per trasformarla incessantemente in rappresentazioni peculiari e personali. Il risultato è un'alchimia raffinata e sorprendente.

Merita di essere menzionato anche l'altro grande filone della produzione di Sgarbossa: le figure femminili.

Le donne rappresentate dall'artista posseggono un quid che le rende creature al contempo eteree e carnali, sensuali e anagogiche, senza che tali parossismi risultino mai surrettizi. Le pose e le posture dei loro corpi rimandano a qualcosa che sta per accadere o è già accaduto, creando un dinamismo pulsante e palpitante. Queste donne, catturate nella sospensione fugace di un attimo, stanno intessendo la propria storia, calcano il palcoscenico della propria esistenza, e non possono e non devono fermarsi, perché l'immobilità è annichilimento e morte. Sgarbossa riesce a cogliere e a rendere magistralmente questo flusso vitale in eterno divenire, sottolineando l'unicità irripetibile di ogni essere vivente e perlustrando l'intrinseca bellezza e la suadente armonia proprie di ogni corpo e di ogni anima.

L'erotismo che talvolta permea i suoi quadri non è mai ingombrante e pleonastico; è pacato, lieve, velato, ed è un modo per celebrare la bellezza ontologica racchiusa in ogni donna, la sua sensualità atavica e ancestrale, che a volte si evince da un dettaglio impercettibile: un gesto, uno sguardo, un movimento. Tutto sta nel saperlo individuare e comprendere, per poi dargli voce.


L'arte vuol sempre irrealtà visibili

J.L. Borges



Chiara Manganelli

venerdì 27 agosto 2010

IL NATURALISMO INFORMALE DI RODOLFO TONIN: LA SILENZIOSA PRESENZA DELL'INEFFABILE


“Sono costretto a continue trasformazioni, perché tutto cresce e rinverdisce. Insomma, a forza di trasformazioni, io seguo la natura senza poterla afferrare, e poi questo fiume che scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente.”
Claude Monet

Rodolfo Tonin, promosso da Falpa Promozione Arte, possiede un ricco e prestigioso curriculum, annoverando al proprio attivo numerose mostre personali e collettive, in Italia e all'estero.
La sua è una pittura squisita, peculiare e poliedrica, densa di spunti e risonanze, che attinge da modelli e correnti artistiche del passato per arrivare a rielaborare uno stile personale unico e in continua evoluzione, ma che richiede diversi e variegati livelli di lettura.
Egli eredita dal naturalismo lombardo del XIX secolo il respiro ampio e grandioso di una natura esplorata “en plein air”, insieme all'uso magistrale della luce e a un cromatismo scompigliato, impastato e sfumato, in grado di suscitare balzi sinestesici sorprendenti e suggestivi.
Se è vero, come affermò Friedrich Schelling, che “la natura è vita che dorme”, la pittura di Tonin, in cui domina una sensibilità di tradizione romantica, è in grado di cogliere e restituire appieno il senso di questa sottile e affascinante ambivalenza, riuscendo a trasmettere sia la sensazione di quiete maestosa e dormiente, sia l'intrinseca e vibrante vitalità che essa racchiude “in nuce” .
L'arte può divenire “natura concentrata”, come asserì Honorè de Balzac, solo nel momento in cui sia capace di rinunciare a un virtuosismo vuoto e imparaticcio, finalizzato a una mera emulazione del reale che risulta inevitabilmente micragnosa e al contempo pleonastica, poiché nulla aggiunge e nulla rivela, e, anzi, banalizza e depaupera qualsiasi tipo di ermeneutica e di teleologia “de rerum natura”.
E Rodolfo Tonin, con la sua pittura, riesce brillantemente a compiere questo processo che permette all'arte di trasformarsi, appunto, in natura concentrata.
Nelle trame delle sue tele è intessuta la quintessenza della Natura, che, come in un gioco di scatole cinesi, racchiude correlazioni inaspettate tra significanti e significati, stimolando lo spettatore a forgiare nessi nuovi e inesplorati che conducano a un senso “altro”, adottando modalità d'interpretazione analogiche ed emotive, e oltrepassando i confini dell'ortodossia semantica per approdare, come meta ultima, a carpire e percepire l'ineffabile. E proprio qui sta la valenza profondamente autentica del suo nucleo “impressionista”, che emerge, sul piano estetico, attraverso l'impiego di colori forti e incisivi, di contrasti cromatici, di sapienti alternanze di luci e ombre, e, sul piano concettuale, viene reso con uno stile del tutto singolare, in virtù del quale il mondo reale viene rappresentato non in quanto entità fenomenologica sovraordinata, ma come fosse lo specchio di un mondo interiore di immensa portata e dotato di sfaccettature dinamiche, temerarie e visionarie.
Nei quadri di Rodolfo Tonin la figura umana quasi non appare, ma, anche se ciò può sembrare un paradosso, essa è invece poderosamente presente, seppure in modo silente e implicito. L'uomo è parte integrante della natura e dei suoi cicli; la sua appartenenza al mondo naturale è radicata e atavica, ed emerge grazie alla soggettività imprescindibile dello sguardo sulle cose, che proietta su questa natura una compagine incommensurabilmente assortita di sentimenti e sensazioni.
La potenza espressiva di questo raffinato artista si esprime mediante una tecnica che utilizza campiture ampie e spaziose, e che talvolta “de-forma” prospettive e rapporti volumetrici per costruire sembianze inconsuete, cangianti e impetuose, adoperando il colore in maniera materica, come fosse sostanza viva e pulsante da far gocciolare, da distendere con la spatola, da comprimere, raggrumare, graffiare o declinare in illimitate possibilità tonali. Tonin ricalca così le suggestioni espressionistiche dell'astrazione informale per creare un impatto emotivo immediato e “violento”, quasi drammaturgico, dove l'effetto cromatico prevale sulla forma, pur senza mai sacrificare l'equilibrio estetico e compositivo. E la forma viene trascesa per addentrarsi in dimensioni semiologiche più complesse e articolate, che si esplicano per mezzo di traslitterazioni da un universo di segni a un altro.
Altre volte, invece, i suoi dipinti trasmettono un senso di freschezza giocosa e gioiosa, dove gli elementi naturali si intersecano e si incontrano per plasmare contrappunti delicati e armoniosi, corollari di polifonie cromatiche dense di dolcezza, e dove la forma non viene “de-formata”, ma esaltata nella sua essenzialità, come se contenesse nella sua foggia una perfezione ontologica che non ha bisogno di ulteriori specificazioni e manipolazioni. In queste opere viene sottolineata la vis raffigurativa dell'eidos (dal greco: forma), intesa secondo l'accezione che possedeva nella filosofia platonica, e dunque concepita come sembianza non solo esteriore, ma come entità che include l'essenza profonda delle cose.
Qui la natura viene spesso rappresentata in tutta la sua eleganza discreta e silenziosa, che ne risalta la dimensione assoluta e quasi atemporale, e il ritmo delle stagioni è scandito in modo lieve e soffuso, talora con velata e mesta malinconia.
Nel complesso lo stile compositivo di Tonin sembra dunque incarnare l'irrisolvibile tensione delle pulsioni umane, che connota l'intero avvicendarsi dell'esistenza, perennemente in bilico tra dicotomie che fondano i presupposti della vita stessa.
Così l'uomo, nel suo viaggio incessante verso di sé, attraversa buio e luce, dolcezza e violenza, dinamismo e stasi, e, soprattutto, può ritrovare il senso profondo della propria “fusis” (dal greco: natura) nel digradare dolce di una collina, nell'inquietudine brumosa di un cielo, nel serpeggiare di un greto, nelle fronde lussureggianti di un albero, nel bianco opalescente di un paesaggio innevato. Il susseguirsi ciclico degli eventi naturali rispecchia quindi la circolarità ineludibile dell'esistenza umana: sempre uguale ma sempre diversa.

"Un prodotto organizzato dalla natura è un prodotto dove tutto è reciprocamente fine e mezzo; in esso, nulla d'inutile, privo di scopo, o dovuto ad un cieco meccanismo naturale."
Immanuel Kant

Chiara Manganelli

giovedì 27 maggio 2010

MANUELA MARUSSI, I FIORI ALCHEMICI DEL GIARDINO DELL'ANIMA

Dal 5 al 22 maggio, presso lo Studio Laboratorio di Anna Virando, in Corso Lanza 105 a Torino, la pittrice triestina Manuela Marussi presenta la propria mostra personale “Il giardino incantato” (orario 16.30-20.00).
Manuela Marussi esordisce come pittrice nel 2000, e in questi dieci anni il suo curriculum si è arricchito di numerose e prestigiose esposizioni personali e collettive.
Questa mostra trae ispirazione da un laboratorio che l'artista ha gestito per un anno con alcuni bambini di una scuola materna. Tale esperienza ha permesso al “giardino incantato” della pittrice di sbocciare e fiorire, portando alla luce il nucleo profondo della sua “Bambina magica”, solare, divina e in armonia con il Tutto, e liberando la sua forza femminile, pregna di potenza creativa e generatrice. In quest'ottica la pittura diventa mezzo espressivo e taumaturgico per far risuonare nell'osservatore emozioni profonde e sottili, e per condurlo alla scoperta della propria essenza autentica e nascosta, che, una volta riconosciuta e accolta, vivifica e rivela i misteri arcani e stupefacenti dell'esistenza.
Il bambino rappresenta un ponte tra la terra e il cielo, tra l'immanente e il divino. Quando ci specchiamo nella purezza intonsa, incantata e giocosa dei bambini, possiamo ritrovare il nostro giardino interiore, in cui sono conservati i frammenti della nostra fanciullezza, troppo spesso assopita o dimenticata.
I quadri di Manuela Marussi sono ricchi di simbolismi e di riferimenti alchemici e spirituali, e in essi predomina sempre una dolcezza estrema, che si manifesta anche attraverso l'uso di delicati colori pastello e di raffinate sfumature cromatiche.
Osservando alcuni suoi dipinti, come “Abbandono” (olio su tela, 90x30, 2009), “Il dono di sé” (olio su tela, 50x70, 2010) e “Semi” (olio su tela, 30x60, 2010), si ha la sensazione di essere trasportati in una dimensione rarefatta e assoluta, in cui la danza della Vita esplode, si espande e risuona, e si viene guidati in un universo onirico fatto di percezioni dolci, ineffabili e vibranti, dove l'armonia diviene musa ammiccante e seducente del nostro Io, in virtù di un processo graduale di autoconsapevolezza che ci porta oltre la realtà apparente, per giungere a sentire e com-prendere ciò che ci circonda. La chiave di svolta è la fusione con l'alterità, che si ottiene attraverso l'Amore incondizionato, unica forza che può farci ritrovare noi stessi e gli altri, in quella terra sconfinata e piena di energia vitale che è sepolta dentro di noi, e di cui a volte perdiamo le tracce, perché ci ostiniamo a cercarla altrove, in luoghi impervi e scoscesi, mentre basterebbe semplicemente scavare, perlustrare e scendere giù, fino in fondo, immergendoci nei nostri abissi interiori senza paure, remore e menzogne.

giovedì 1 aprile 2010

SI PUO' - IL DILEMMA DI UN UOMO E UNA DONNA - OMAGGIO A GIORGIO GABER

Sabato 20 marzo 2010, presso il Teatro Espace di Torino, Giampiero Alloisio e Federico Sirianni hanno portato in scena un intenso spettacolo dedicato al Teatro Canzone di Giorgio Gaber, insieme al bravissimo Gianni Martini, chitarrista storico del Signor G., a Claudio Andolfi alle percussioni e al giovane Piji, cantautore romano vincitore del premio Bindi 2009.
La canzone “Il dilemma”, emblema romantico di un amore struggente, tragico e impossibile, fu affidata nel 1981 all'interpretazione di Alloisio, e proprio da qui nasce l'idea di questo spettacolo, che si snoda, appunto, sul filo degli amori impossibili: l'amore per una donna, per un ideale, per un sogno, per una politica che si occupi davvero della “res pubblica”, per una giustizia sociale fondata su basi morali e filantropiche, per la propria interezza di uomo.
Gaber fu un artista unico, perché affrontò sia tematiche inerenti la dimensione sociale, politica e collettiva, sia questioni riguardanti la sfera ontologica, emotiva e individuale, con la stessa eccezionale capacità di analisi, sviscerando questi temi con un'intelligenza, una sensibilità e un acume rari, e riuscendo a coniugare insieme sarcasmo, autoironia, umorismo, sdegno, invettiva e solennità, attraverso uno sguardo sempre estremamente lucido e penetrante sull'universo umano in tutte le sue sfaccettature. Sapeva strappare incontenibili risate, talvolta amare, e allo stesso tempo sapeva far riflettere in modo profondo, mai banale, svelando l'essenza delle cose, al di là della superficialità e del trito e vuoto buon senso comune, oltre ogni etichetta, ogni moda e ogni faziosità.
La magnifica serata è stata orchestrata in modo da alternare canzoni meno note al grande pubblico, come, ad esempio, “ I reduci”, “Ora che non son più innamorato” “Le elezioni” e “L'odore”, a brani celeberrimi, come “La libertà”, “Lo shampoo” e “Barbera e champagne”, mescolando sapientemente pezzi commoventi e densi di pathos, come “L'amico” e “Quando sarò capace di amare”, a pezzi esilaranti e dissacranti, come “La strana famiglia” e “Madonnina dei dolori”, fino a giungere all'epilogo del percorso artistico del Signor G., con “Non insegnate ai bambini”, meraviglioso testamento pedagogico che Gaber scrisse e interpretò poco prima della sua scomparsa.
E ad appassionare ancor più, i gustosi aneddoti di vita vissuta, raccontati da Giampiero Alloisio, che lavorò al fianco del Signor G. per ben sedici anni.
Gli artisti si sono dimostrati all'altezza di una prova per nulla semplice: far rivivere l'eclettico e geniale Giorgio Gaber. E sono stati davvero impeccabili, poliedrici e versatili, intensissimi nell'interpretazione, in grado di emozionare e coinvolgere gli spettatori, e di ricreare quasi la stessa atmosfera potente, incisiva e pregnante che Gaber sapeva elargire al proprio pubblico.
Un omaggio, dunque, ben congegnato e perfettamente riuscito, che ha reso onore a uno dei più grandi artisti del nostro tempo.

Chiara Manganelli

L'ESPRESSIONISMO METAFISICO DEL SENTIMENTO DI MONICA MAFFEI: SGOCCIOLATURE DI POLIFONIE EMOZIONALI


“Non si vede bene che con il cuore, l'essenziale è invisibile agli occhi.”
Il Piccolo Principe, A. de Saint-Exupéry



Monica Maffei, distribuita in esclusiva da “Falpa Promozione Arte”, è una pittrice dotata di rara sensibilità, che attinge la propria ricchezza espressiva da varie esperienze umane e artistiche, per giungere a un percorso personale originale ed estremamente interessante, in continua evoluzione.
L'arte di Monica Maffei è un luogo evanescente e potente, a tratti diafano e a tratti acceso, dove risuona l'eco accattivante dell'ineffabilità; è, come disse Charles Baudelaire “una magia suggestiva che accoglie insieme l'oggetto e il soggetto”, e che innesca una profonda e irreversibile trasformazione della realtà, schernendo sottilmente l'illusione positivista che per secoli ci ha fatto credere che possa esistere un “oggetto in sé”, indipendentemente da colui che lo osserva e lo percepisce. Le opere della pittrice varesina sono cariche di intuizione, di pathos, di slancio, e interpretano il mondo attraverso un vivido ed “epidermico” processo di identificazione empatica, che, attraverso tele dense di striature e chiazze, concrezioni materiche stratificate, alternanze di vuoti e pieni, viluppi di colori a volte opachi e sfumati, a volte brillanti e sgargianti, ci restituisce una gustosa sintesi ermeneutica e semiologica dei recessi più nascosti dell'Io, resa mediante un simbolismo penetrante che sconfina nell'espressionismo astratto. La sua arte è un crocevia dove si intersecano sinfonie di sentimenti cangianti e sfuggenti che rimbalzano dentro dedali di storie di vita quotidiana, creando affabulazioni ambivalenti, imprevedibili, giocose o malinconiche, generate dall'intimità sfaccettata, misteriosa e caleidoscopica dell'anima umana.
E' necessario soffermarsi e indugiare sulle opere di Monica Maffei affinché esse svelino i loro significati più intensi e profondi. A un' analisi superficiale, infatti, i soggetti rappresentati dalla pittrice possono apparire avvolti da un'atmosfera di impenetrabilità ermetica, come se custodissero un segreto inviolabile e difficilmente comprensibile a una lettura negligente e frettolosa. Ed è proprio così: le figure umane impresse sulle sue tele devono essere decifrate con cura e solerzia; sono latori di enigmi e di scorci di esistenza squisiti e arcani, che si manifestano e si rivelano solo a chi abbia l'audacia e il desiderio di guardare con gli occhi del cuore, e di entrare in risonanza emotiva con essi. Nei volti della Maffei le pupille sono bandoli scintillanti e iridescenti che si dipanano verso l'immensità del cielo, che roteano avanti e indietro tra gli anfratti emblematici del tempo, e traboccano di energia vitale anche quando vi serpeggiano i marchi a fuoco del dolore e dell'inquietudine.
Clement Greenberg affermò che la vera arte deve basarsi sul sentimento, e Monica Maffei incarna perfettamente questa concezione dell'arte, lambendo le emozioni che si nascondono dentro le emozioni, in un gioco di scatole cinesi che si schiudono come boccioli alla luce. La luce è lo sguardo della pittrice, di donna, prima ancora che di artista, che sa scorgere oltre le maschere dell'apparenza, che sa sfogliare con delicatezza e acume le pagine dei libri scritti tra le pieghe della pelle delle persone che incontra, e sa farne opera d'arte, trasponendo sulla tela la passionalità sommessa di coloro che si muovono nel mondo in modo compito e discreto. La sua è un'azione di “archeologia umana” finalizzata a recuperare il magma che pulsa sotto la cenere, per ritrovare ciò che giace sepolto dal tempo e dalla frenesia convulsa della vita moderna, dando voce, attraverso il segno pittorico, al fragore del silenzio, ed esprimendo con le immagini quello che la parola riesce appena a sfiorare e abbozzare.
Nei suoi quadri c'è il profumo di uno stile informale che ricorda alcuni artisti del Color Field Painting come Jules Olitski, Kennet Noland e Mark Rothko, e in molte delle sue tele l'uso del dripping richiama l'importanza dell'atto inconscio nella creazione artistica, rimandando ai fondamenti concettuali dell'Action Art di Jackson Pollok. L'impiego di spatolate verticali crea suggestive texture di diversi colori o dello stesso colore declinato in differenti intensità e sfumature, che elargiscono un peculiare effetto di distorsione della profondità prospettica, e che hanno come conseguenza l'amplificazione della dimensione emotiva del soggetto rappresentato.
Ma Monica Maffei non è un'artista informale pura: i suoi dipinti sono quasi sempre popolati da esseri umani, spesso donne, immersi in un'atmosfera rarefatta, sensuale e trasognante. Dunque il suo espressionismo è in parte astratto, in parte figurativo, ha origine dalla sua anima per poi immergersi nell'anima dell'oggetto/soggetto osservato, ed è metafisico (sia in senso pittorico, sia in senso filosofico) perché oltrepassa i limiti della realtà transeunte allo scopo di scandagliare il nucleo arcano ed esoterico dei sentimenti, custodito nell'inconscio individuale e collettivo, che traspare da un guizzo negli occhi, da un gesto, da un'espressione del viso, da una posa del corpo.
Nella pittura della Maffei pare sanarsi l'annoso dualismo tra realtà noumenica e realtà fenomenica: il noumeno qui non è l'idea platonica, intelligibile nella sua purezza solo dall'intelletto capace di trascendere il mondo tangibile, e non è neppure ciò che Kant definiva un tentativo da parte del pensiero di rappresentare ciò che è inconoscibile. Il noumeno della poetica dell'artista non è un attributo della mente razionale, bensì un'essenza primordiale, una struttura fondamentale ed eterna degli esseri che però prende vita dall'emozione, e che supera questa antica dicotomia perché la realtà noumenica non si colloca al di fuori della realtà fenomenica, ma dentro di essa, ad un livello diverso e maggiore di profondità. Il “noumeno”, dunque, è un principio “sentimentale” e non mentale, e non sussiste su un piano differente rispetto al fenomeno. Per Platone solo le idee (noumena) erano conoscibili, mentre per Kant solo i fenomeni, ma in entrambi i casi il dualismo appariva insanabile e insolubile. La metafisica intesa come “scienza della cosa in sé” è sempre stata fonte di accese diatribe filosofiche, poiché si è sempre posto come assunto il pensiero, che, in quanto tale, non può divincolarsi da se stesso e dalla propria autoreferenzialità, e proprio da ciò scaturiva il sillogismo che conduceva all'antinomia. E se ciò che esula la conoscenza non è neppure concepibile, la sua stessa esistenza risulta del tutto indifferente e irrilevante.
Ma Monica Maffei pare dirci che il paradigma che dobbiamo assumere per conoscere e comprendere sia i fenomeni, sia i noumena (cioè la natura essenziale delle cose), non è la ragione, incapace, appunto, di valicare i propri confini, ma l'emozione empatica e intuitiva, che non ha bisogno di capire il mondo in maniera dialettica e dialogica, perché sente in virtù di processi analogici, e così può travalicare se stessa e può portare alla “com-passione”(intesa secondo l'accezione adottata nei poemi omerici). E la pittrice pare dirci anche che non dobbiamo cercare questa essenza fuori di noi e fuori dalla realtà percepibile, ma dentro di noi e dentro il mondo in cui viviamo, imparando a guardare al di là dell'apparenza, negli abissi incommensurabili del cuore.


La natura è spesso nascosta, qualche volta sopraffatta, molto raramente estinta.
Francis Bacon



Chiara Manganelli

ANTONIO SGARBOSSA TRA SOSPENSIONE ONIRICA E “REALISMO SOGGETTIVO”



L'unica vera sorgente dell'arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un'opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio”


Caspar David Friedrich





"Una piccola ala di muro gialla, di cui non si ricordava,
era dipinta così bene da apparire, a guardarla isolatamente,
simile ad una preziosa opera d'arte cinese,
di una bellezza che basta a se stessa.”


Marcel Proust,
À la recherce du temps perdu, La prisonnière





Falpa Promozione Arte” viene fondata negli anni '50 da Guido Gori, e nasce come azienda produttrice di oggetti sacri e cornici. A partire dagli anni '60 inizia a valorizzare il lavoro di alcuni artisti locali, per poi espandere ed ampliare sempre più il proprio interesse per il mercato dell'arte.

L'azienda, attraverso canali divulgativi quali pubblicazioni editoriali, programmi televisivi, partecipazione a fiere e organizzazione di mostre, promuove numerosi artisti contemporanei di prestigio, tra cui: Rodolfo Tonin, Ciro Palumbo, Alfio Presotto, Luca Guizzardi, Antonio Sgarbossa, Claudio Rolfi e Monica Maffei.

L'obiettivo è quello di sensibilizzare il grande pubblico e di sviluppare in Italia e all'estero un mercato teso a sostenere una capillare diffusione di opere d'arte che rappresentino e rispecchino le tendenze della pittura contemporanea.

Un ambizioso progetto di moderno “mecenatismo”, dunque, che viene realizzato in virtù di uno sguardo critico e attento all'evoluzione del panorama artistico dei nostri giorni, e che deve a Sergio Gori la propria linfa vitale.

Tra i vari connubi che “Falpa Promozione Arte” ha intrapreso in questi anni, uno dei più fertili e proficui è senz'altro quello con Antonio Sgarbossa.

Nelle opere dell'artista veneto si assiste a un'analisi minuziosa della realtà, a una solerte e doviziosa celebrazione del dettaglio in quanto simbolo di una dimensione psicologica soggettiva, sospesa in una temporalità squisitamente intima ed evocativa. Il dettaglio, oltre ad essere un significante, e dunque una forma dotata di una propria estetica, è anche significato e rimanda a un contenuto, a una semantica che si articola attraverso l'occhio di chi guarda e vive la realtà. E grazie a un rapporto inscindibile e costante di presupposizione reciproca tra l'aspetto formale e l'aspetto contenutistico racchiuso nei particolari del reale, si definisce e si delinea una delle peculiarità del segno pittorico di Antonio Sgarbossa: l'universo soggettivo.

Le sue opere si fondano su una rara e precisa padronanza della tecnica, e su un “realismo” che, ad un'analisi superficiale, può apparire una mera, seppur ineccepibile, riproduzione della realtà tout court. Invece, a un'indagine più attenta, ci si accorge della portata del linguaggio espressivo dell'artista, che mira a dare risalto non all'oggetto in sé, ma all'oggetto in quanto specchio versatile del mondo interiore dell'osservatore. Così la realtà acquista pregnanza, vita, senso e pulsazione.

Sgarbossa è fedele ad un uso della prospettiva che si rifà agli studi dei grandi maestri dei sec. XV e XVI, perchè, come affermò Leonardo da Vinci,“sempre la pratica dev’essere edificata sopra la buona teorica, della quale la prospettiva è guida e porta, e senza questa nulla si fa bene”. Ma il punto di vista presente nei dipinti dell'artista veneto è originale e inconsueto, quasi “fotografico”, e i tagli prospettici non sono quelli “canonici”, bensì risultano arricchiti da innumerevoli ventagli di sguardi possibili, che scompaginano le visuali consuete e carpiscono le infinite sfaccettature dell'universo immanente.

Nelle opere di Sgarbossa vengono spesso raffigurati ambienti urbani in cui la ricerca volumetrica appare impeccabile e armoniosa, e in cui la composizione delle forme e degli spazi crea atmosfere evanescenti ma nitide, silenziose ma eloquenti, surreali ma tangibili, dense di un'eleganza compita e discreta, e immerse in un tempo onirico e irreale, dove la presenza umana non sempre è evidente: talvolta è quasi nascosta, eppure ineludibile.

Nell'uso di luci soffuse, di colori tenui, sfumati e umbratili, e in talune scelte stilistiche e compositive, i suoi paesaggi e i suoi ambienti urbani possono rievocare l'opera di alcuni esponenti della pittura olandese del '600, come Jan Vermeer, e della pittura romantica inglese e tedesca (William Turner, John Constable, Caspar David Friedrich).

Un altro filone estremamente interessante della ricerca artistica di Antonio Sgarbossa è quello della rappresentazione di figure umane, in particolare femminili, in cui la dimensione “intimista” acquista ancor più rilevanza. Qui l'uso raffinato di giochi di luci e ombre e l'impiego di posture ammiccanti e sensuali, che ricordano Edgar Degas, permettono di dare enorme risalto alla sfera emotiva, conferendo ai soggetti una sorta di estraniato e diafano lirismo, che a volte assume i contorni di un'elegia struggente e malinconica, dispiegata nello spazio fugace di un attimo impalpabile e caduco eppure eterno, avviluppato a rapsodiche e misteriose attese. Le donne di Sgarbossa, affondate in un'incertezza mesta e trasognata, somigliano alle donne ritratte dal celebre Edward Hopper, ma appaiono più risolute e dinamiche rispetto a quelle che popolano le tele dell'artista americano. Nei dipinti di Sgarbossa non si percepiscono né rassegnazione, né dolorosa solitudine; al contrario: vi pulsa e vi pullula la vita. L'apparente immobilismo, in realtà, sottende l'idea del movimento: è un preludio, non una condizione inderogabile, e rassomiglia più a un raccoglimento che precede un'azione e ne suggella l'inizio o la continuazione, che a uno stato di rinuncia e abbandono. E l'erotismo velato di cui sono permeate queste opere sottolinea un fermento in nuce, che traspare dalle pose e dai gesti dei corpi, e che comunica la tensione alla vita generata dal tempo infinito di un attimo.

Chiara Maganelli