mercoledì 25 novembre 2009

CLAUDIA GIRAUDO, IL DAIMON, MENTORE DEL FUOCO DELL'ANIMA



“Quando tutte le anime si furon scelte le vite, nell'ordine del sorteggio si avviarono a Lachesi; e questa a ciascuno dava a compagno il demone che si era scelto, quale custode della vita e adempitore della sorte prescelta. Il quale, innanzitutto, conduceva l'anima da Cloto, a far confermare, sotto la mano di lei e il volgersi del giro del fuso, il destino che nel sorteggio quegli si era prescelto; e toccata questa, lo conduceva poi al filo di Atropo per fare immutabile il destino una volta filato; di qui, senza voltarsi, andava ai piedi del trono di Ananke, e passato attraverso quello e passati anche gli altri, tutti insieme si erano avviati alla pianura del Lete, attraverso una terribile calura e arsura, chè quel piano era privo di alberi e di vegetazione della terra. Fatta già sera, essi si erano attendati presso il fiume Amelete, la cui acqua nessun recipiente è buono a contenere. Tutti dovevan per forza bere una certa misura di quell'acqua, ma quelli non preservati da prudenza ne bevevano più della misura, e chi man mano vi beveva si scordava tutto. Messisi a dormire e fatta mezzanotte, scoppiò un tuono e un terremoto, e di là d'un tratto furon, chi qua e chi là, trascinati su alla nascita, filando veloci come stelle cadenti. Lui, Er, era stato impedito dal bere dell'acqua; e in che modo e come fosse giunto al corpo non sapeva, ma d'un tratto, riaperti gli occhi, si era visto al mattino giacente sopra la pira.
E così, o Glaucone, questo mito si è salvato e non è perito, e potrà salvare anche noi, se gli crediamo; e noi passeremo felicemente il Lete e non saremo contaminati nell'anima. Ma se a me vorremo dar retta, ritenendo l'anima immortale e capace di reggere a tutti i mali e a tutti i beni, ci atterremo sempre alla via che va in alto e praticheremo in ogni modo giustizia con saggezza, sì da esser cari a noi stessi e agli Dei finchè restiamo qui in terra, e dopo, che ne avrem riportato i premi che i vincitori raccolgono, e da trovarci bene sia qui, sia nel viaggio millenario di cui abbiamo discorso.”

Platone, La Repubblica, X, 620-621




Nelle opere di Claudia Giraudo crepita, tra bianchi spazi siderali, un fuoco primitivo e primordiale che, attraverso incessanti metamorfosi e intrepide combinazioni di materia e colore, si trasforma in eidos (forma) raffinata, potente, preziosa, ammiccante e pregnante. Questa forma suggella e custodisce segreti ancestrali, incarna l'idea di se stessi, è “la causa per cui un ente possiede una certa proprietà” (Aristotele), e rappresenta un principio attivo di distinzione dell'essenza con forti attributi ermeneutici oltre che estetici. Essa è un'immagine fondamentale, perfetta (cioè compiuta, secondo l'etimologia latina del termine), che va al di là della precarietà e della dimensione spaziotemporale, perché è.
Io non mi evolvo, io sono” affermò Pablo Picasso. Ed è proprio questo concetto che si percepisce osservando i dipinti della pittrice torinese: le figure trasognanti e impalpabili che popolano e abitano le sue tele sono latori eterei, diafani ed evanescenti, dotati di una potenza incisiva e comunicativa sorprendente, proprio perché sono, perché dimorano in una dimensione fluttuante, irreale e onirica, in uno spazio sospeso, dove non esiste il doloroso e tumultuoso fluire della vita terrena, ma tutto è, e nulla, dunque, (si) succede e si attende.
I volti raffigurati nelle tele della Giraudo sono “stelle di neutroni” dense all'ennesima potenza, carichi di incommensurabile energia; in essi tempo e spazio collassano e implodono, e sfuma la tagliente, ineluttabile e inesorabile linearità dell'esistenza.
Accanto a questi volti appaiono, come alter ego, piccoli animali che fungono da spirito guida: sono i daimon, manifestazioni dell'anima nell'universo fisico, che accompagnano l'individuo nelle sue peregrinazioni terrene, proteggendolo e guidandolo alla ricerca della sua essenza più intima e profonda, della sua vis ontologica, restituendo un costrutto semantico all'apparente casualità caotica della vita umana.
Il daimon incarna ciò che in noi è ineludibile e ineffabile, è un emblema teleologico che elargisce significanza, identità, unicità e potere all'individuo. E' un principio vitale che compare in molte antiche culture del nostro passato. E' un essere che appartiene alla sfera del mito, che scompagina la sistematicità della nostra esistenza e graffia la superficie delle cose per svelarne il senso recondito.
L'albero della Cabala della tradizione mistica ebraica affonda le proprie radici nel cielo: così la nostra anima, che, restia a calarsi e immergersi nel mondo contingente, viene aiutata, in questo difficile processo, dal suo daimon.
Ogni essere, per ananke (necessità), ha un percorso da compiere dove “tutti gli eventi formano un'unità e sono per così dire intessuti insieme” (Plotino), e sceglie un paradeigma, cioè un modello, un'immagine di vita. A ogni anima, secondo il mito platonico, Lachesi affiancava un daimon, “perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto”.
Nelle sue tele la pittrice torinese non intende compiere un'indagine sul volto umano rifacendosi alla tradizione della Fisiognomica classica, che vede i primi albori in Leonardo da Vinci, per poi giungere alle distorsioni aberranti della frenologia del XIX secolo. Non vi è, dunque, l'intenzione di perlustrare i tratti somatici di un individuo per sottolinearne le peculiarità psicologiche e sociali, ma, invece, si vuole elevare l'essere umano a simbolo di perfezione e Bellezza, decontestualizzandolo dal mondo fenomenico a cui appartiene.
Le sue opere, ricche di elementi che rimandano al Realismo magico, non raffigurano delle persone immerse nel loro scenario contingente, ma dei messaggeri - spesso bambini - che, con la loro purezza di esseri divini, stabiliscono una connessione tra il mondo dello spirito e il mondo della materia.
Qui l'immagine si trasforma in icona, e il ritratto diviene simbolo di significati nascosti che vanno oltre l'immanenza. Perché solo superando la propria dimensione soggettiva l'individuo può esperire forme di sé più segrete, alte, imprevedibili e stupefacenti.
Il travestimento assume, quindi, una funzione di nobilitazione, è uno stratagemma per impreziosire l'essere umano e al contempo spogliarlo dei propri abiti consueti, affinché possa scardinare le categorizzazioni soffocanti e spezzare gli schemi limitanti del proprio Io, e accedere così al proprio nucleo essenziale originario. E' importante comprendere che, nel momento in cui viene spogliato o abbigliato con vesti di diversa foggia, l'individuo trascende se stesso, e in questo modo varca i propri confini materiali, supera le dicotomie, i conflitti, la separatezza tra sé e l'Universo, per giungere a una dimensione superiore, ritrovando nell'Unità e nella Totalità la propria natura più profonda.
Claudia Giraudo porta questi concetti sulla tela attraverso un uso poderoso del colore bianco e di toni chiari, di giochi di luci soffuse e ombre delicate, e mediante sfondi materici e informali, che richiamano l'idea dell'indifferenziazione primordiale. Su questi sfondi talvolta appaiono collage di lettere, che sono delle tracce, dei segni del nostro passaggio nel mondo tangibile, per ricordarci che è possibile trascendere noi stessi solo riconoscendoci, partendo dal nostro “destino” e dalla nostra storia, orma indelebile che lasciamo in eredità ai posteri. E srotolando e dipanando la linea temporale delle altrui esistenze, possiamo trovare il bandolo della nostra, sciogliere i nodi interiori che ci intralciano, comprendere chi siamo e da dove veniamo, e sentire l'appartenenza atavica e profonda a un unico percorso universale, che è quello dell'Uomo.




“Nell'evoluzione di tutti gli artisti, il germe delle opere successive è sempre contenuto nelle prime. Il nucleo intorno al quale l'intelletto dell'artista costruisce la propria opera è il suo Io. L'unica influenza che io abbia mai avuto sono io stesso.”

E. Hopper

“Prima ancora della ragione vi è il movimento vòlto all'interno che tende verso ciò che è proprio.”

Plotino, Enneadi, III, 4.6

domenica 15 novembre 2009

MOSTRA DELLA PITTRICE CLAUDIA GIRAUDO


Sabato 28 novembre 2009, a Torino, presso la libreria “Linea 451”, in Via Santa Giulia 40/A , inaugurerà la mostra personale della pittrice Claudia Giraudo “Il sole e la cometa”. In esposizione, fino al 6 gennaio 2010, alcune delle opere più recenti dell'artista torinese.
Alle ore 21.00 verrà presentata una performance teatrale e musicale ideata, scritta, diretta e interpretata da Chiara Manganelli e Luisa Dante. Le musiche sono tratte dalla Suite num 2 per violoncello di J.S. Bach, e verranno eseguite dal violoncellista Alex. Infine sarà offerto al pubblico un piccolo buffet.
Questa mostra rappresenta un ulteriore sviluppo del percorso artistico di Claudia Giraudo. La sua indagine stilistica e concettuale indossa vesti nuove, per giungere a un uso dell'immagine intesa come icona e non come ritratto connotato da precise caratteristiche psicologiche. Nella sua ricerca artistica, dunque, Claudia Giraudo intende elevare la figura umana a simbolo universale e atemporale, per creare un “atto poetico” che trasformi e plasmi una realtà altra, come direbbe Alejandro Jodorowsky.

PROGRAMMA DELLA SERATA

Performance teatrale e musicale ideata per la serata inaugurale della mostra “Il sole e la cometa” della pittrice Claudia Giraudo.

Ideazione e organizzazione evento, testi, sceneggiatura, interpretazione: Chiara Manganelli

Ideazione, regia, interpretazione: Luisa Dante

Costumi e oggetti di scena: La Bottega dell'Attore in Viola
Direzione artistica: Marzia Scarteddu

Interpreti: Chiara Manganelli e Luisa Dante
Musiche tratte dalla Suite num 2 per violoncello di J.S.Bach
Violoncellista: Alex



“Tenebra vi era, tutto avvolto da tenebra,
e tutto era Acqua indifferenziata. Allora
quello che era nascosto dal Vuoto, quell'Uno, emergendo,
agitandosi, mediante il potere dell'Ardore, venne in essere.”

Tratto dai Veda, Nasadiya Sukta (Inno delle Origini), RV X, 129


Da dove abbia origine la creazione dell'universo come lo conosciamo e lo concepiamo, è un controverso mistero su cui l'umanità si interroga da sempre.
Anche l'arte, intesa come atto creativo (oltre che interpretativo) della realtà, è un insoluto enigma seducente.
Questa performance teatrale fornisce allo spettatore alcuni spunti per riflettere e interrogarsi sul potere della creazione, non di un fantomatico dio, ma dell'essere umano.
Il prologo di questo spettacolo è l'Inno alle Origini, tratto dai Veda, antichi testi sacri induisti, che intende descrivere, per analogia, la fase embrionale della genesi artistica. Questo splendido incipit ci porta nell'indifferenziazione, nell'Unità totale, da cui ogni cosa ha origine, ma in cui nulla possiede ancora consistenza e sembianza. Eppure, in questo luogo non-luogo, tutto già esiste in nuce. Come la forma, secondo quanto affermò Michelangelo Buonarroti, è già contenuta nel blocco di marmo, e compito dello scultore è liberarla, togliendo la materia in eccesso, così l'opera d'arte è già presente nell'anima dell'artista, ed egli deve scavare e scandagliare dentro di sé per farla emergere dal Nulla.
Dal Vuoto, dal Nonessere (concetti che non hanno affatto una connotazione dispregiativa e negativa, ma incarnano semplicemente il “preludio” assoluto di ogni cosa), mediante l'Amore, suprema forza creativa primordiale, prende vita il movimento cosmico.
La musica rappresenta questa forza creativa originaria, è l'Armonia che dà al Nonessere l'impulso per divenire Essere, è l'energia palpitante che muta la materia in opera d'arte e l'uomo in artista.
A questo punto la metamorfosi è in atto: le attrici si trasformano, l'una incarnando l'aspetto giocoso, irriverente e irrazionale dell'esperienza artistica, e l'altra la parte ordinatrice e razionale che permette all'arte di diventare intelligibile, e di essere, quindi, non solo urgenza catartica e azione autoreferenziale, ma anche e soprattutto mezzo comunicativo. Questi due aspetti, apparentemente dicotomici, arrivano infine a integrarsi e amalgamarsi attraverso un processo dialogico.
L'artista, dunque, in estrema sintesi, altro non è che un demiurgo, secondo l'accezione platonica del termine: egli è una sorta di artefice divino, una forza cosmogonica che dà forma e ordine alla materia, creando un ponte tra il mondo delle idee e il mondo fenomenico.
E lo spettatore, a sua volta, deve trasformarsi in “attore” affinché l'opera d'arte possa ritenersi compiuta: colui che osserva la creazione artistica non si deve limitare a contemplarla in modo distaccato e distante, ma è chiamato a entrarvi dentro, a specchiarvisi, per scoprire in essa qualcosa di sé e farla propria.

Chiara Manganelli


Per informazioni e contatti:
clodgiraudo@gmail.com
ch.saudade@gmail.com

www.claudiagiraudo.carbonmade.com