giovedì 22 maggio 2008

BOTTEGA INDACO, L'OFFICINA DEI SOGNI




Nel mare, cielo inverso, una lampara.

Un baluginio flebile, uno sprazzo silenzioso. E poi una pioggia di stelle che inonda le pupille. Le palpebre, pesanti sipari polverosi, si sollevano come drappi leggeri di piume d’albatro, e mettono a nudo il mio sguardo. E nello sguardo, milioni di amplessi si consumano: una vertigine di vermiglio che penetra in un oceano di cobalto, un sole giallo che affonda le sue labbra in un cielo indaco, una brezza d’argento che si posa sul candore di una rugiada bianca come nettare di fico. Una danza folgorante che profuma di spezie. Passi leggeri di musiche iniziatiche. Vortici voluttuosi e sensuali, che fanno vibrare i nervi.

Una nuvola mi avvolge. L’aria diventa pulviscolo denso e lattiginoso, e i miei pensieri si infilano dentro i pertugi di un muro, come ramarri atterriti. E divento sensazione pura. La razionalità è bandita da questa metamorfosi.

Orfeo mi ammalia con la sua poesia fantasmagorica, e io, come Euridice, lo seguo, tento di risalire dagli inferi di un mondo plumbeo, senza luce e colori.

Non voltarti, Orfeo, non voltarti mai! Perché l’Amore a volte ha passi lievi, di velluto; è silenzioso e suadente, come la notte, e devi fidarti della sua presenza, perché la paura lo fa riprecipitare nell’Ade, in quel gorgo nero da cui l’avevi strappato.

Canta, scrivi, suona, dipingi, declama.

Ama, ama te stesso, come un Narciso insolente. Corteggia e conquista la dea Bellezza, falla tua, possiedila, spogliala, ghermisci i suoi segreti ancestrali.

Plasmala, trasformarla, mordine la polpa dolce e succosa, fino al nocciolo. E da uno scampolo di Bellezza, tessi altra Bellezza, fino a che il mondo non ne sia satollo.

Vedo un unicorno dagli occhi smeraldini che galoppa in mezzo alle onde, e dallo sciabordio irrequieto del mare, emergono, come isole luminose e abbacinanti, diamanti iridescenti e incandescenti, che brillano alla luce della Luna.

Gli dei dell’Olimpo fluttuano tra la schiuma e la salsedine, e addolciscono e rapiscono la mia anima con affabulazioni stupefacenti. Mi abbandono, mi lascio cullare, mi trastullo tra le braccia avvolgenti del Sogno.

Il sorriso disarmante di un bambino mi prende per mano e mi porta via, dentro universi lontani, eppure vicini. Percorro cerchi concentrici, mi restringo, mi dilato, esco da me, entro in una dimensione in un cui tutto è etereo, infinito, diafano, senza tempo e senza spazio. E ogni cosa acquista senso. Non ho più bisogno di parole, né di maschere, né di pelle, involucri fragili e tenui, che proteggano e difendano la mia anima. Vita pura che palpita, in empatia con il Tutto.


Chiara Manganelli

EMIGRARE

Ombre che passano tremanti e furtive.

Ombre fredde di tramontana.
Luci sul filo dell'incertezza.
Vortici danzanti di sogni ruggenti, densi e deliranti.
Fiele che si mescola all'ambrosia

e scioglie i suoi grumi

nel ricordo vago e struggente

di un'amarezza voluttuosa.
In gola spilli di dolcezza pungono i respiri.
Sulle labbra convulse

la titubanza si mischia all'audacia

e sputa le spine
di una follia asettica, asciutta e programmata.
L'orizzonte non è altro che un travolgente amplesso tra il cielo e il mare,
dove si staglia la forma imprudente e seducente di un tempo confuso,
emblematico e visionario.
E mi fermo sull'orlo frastagliato della battigia a farmi inghiottire

dalle tempeste gorgheggianti di oceani neri e rabbiosi.

Davanti a me

colori, odori, tuoni, suoni e uragani che ancora non conosco.
Gira, vira, beccheggia ed esplode l'alba,

avvolge i nervi schiacciati e contorti

tra le sue cosce rosa e maliarde.
Evapora la paura,

si dipanano i grovigli di un dolore sordo e ostinato.
Andare.

Ma senza fuggire.
Coltello tra le mani per aprire i gusci dei sorrisi

e recidere le lacrime.
Gustoso stupore e fantasia

da masticare come companatico.
Andare,

per seppellire fantasmi torvi e meschini,

gonfi di sofferenza e scherno.
Andare,

per afferrare e carpire un senso,

strapparlo dalla caparbietà ottusa dell'immobilità,

cercarlo tra volti consumati dal sole,

tra brecce di nostalgia,

tra venti ancestrali,

tra dedali scoscesi.
Scavare, mordere fino a divorare lo scheletro dell'aria e del mare,

e vomitare ogni spregevole riluttanza,

ogni scalpitante e ignorante timore.
Grattare fino a far sanguinare le unghie,

fino a sparpagliare i pensieri tra i ciottoli profumati di sale e vita,

tra le onde vibranti e inquiete.
Lontano da queste nebbie spesse e sterili.
Lontano da questo ghetto di cemento gretto e spento.

Chiara Manganelli

AMBIVALENZE


Lubrichi e laidi palindromi di lacerante ambivalenza si stagliano sulle imprudenze impudenti della notte, e io, rozzo batrace camaleontico, disegno disforiche vertigini torve e tumescenti che vomitano rocambolesce riluttanze.

Ma la renitenza si fa a tratti penitente, remissiva e pavida, e l'anima gongola attraverso osceni buchi spalancati su orizzonti di insopportabile e insolente debolezza.
Debordo oro sporco e contaminato, trasudo lapislazzuli grevi e informi che si ergono ad angeli custodi dei miei occhi sparuti e spenti. Le mie labbra, serrate in morse di ghiaccio, diafane e disfasiche, suggellano tracotanti disfatte e abiurano l'abominio di qualsiasi resurrezione.
L'ablazione dei sentimenti è processo inevitabile in questa prigione sulfurea. L'abulia diviene amara e amata compagna di giornate divorate da ripetitività soffocanti e stremanti.
La distruttività, irrinunciabile e infame baluardo di incanti e inganni, si insinua scaltra e arguta nelle vene, con stratagemmi subdoli e terrificanti, millantandosi odiosamente e mistificando dannazioni per estatiche passioni.
Il malsano baratto si fa ignobilmente e spudoratamente saccente e tronfio.
Ghigni affilati, intagliati su muri di pianto policromo, riempiono e assordano le orecchie, e la carne è schiava di questi giochi perversi che trascinano nervi e anima in abissi profondi come gole sataniche.
Mi adagio su sogni color cremisi, su melopee che sovrappongono follie oniriche a ferite aperte da pestilenziali lontananze, e masticando mesticanze di desideri metamorfici e imprecisi, sprofondo dentro impasti e miscellanee di ombre dionisiache e paradisiache, precipitate erroneamente
negli anfratti della mia disfatta. Mi ripeto ossessivamente: " non credere e non cedere ai fantasmi della speranza". Ma si sa: la schizofrenia del cuore schizza fuori dai seminati della ragione e macchia il mondo con stolte pennelate di disperata abnegazione.
Mi addentro per sentieri impervi e ogni tanto mi siedo su montagne calcaree.
Guardo l'orizzonte fiammeggiante e scorgo aquile inquiete che roteano su cieli venati di alabastro. Mi urlano di seguirle per vie adamantine e nitide, ma io, caparbia come una roccia ridicolmente vetusta, resto seduta, crocifissa alla mia seducente solitudine. Una Venere lasciva mi porge arazzi
tessuti di trame mutevoli su cui scricchiolano ossa stanche e volubili, memori di vanesie e vili vanità. L'ordito e' cedevole, e tra molli, capziose e caritatevoli insidie mi accoccolo come bambina spersa e spaesata.
Qui ritrovo ritrosie ritorte su ricordi aciduli che avanzano a ritroso, e mi immergo in orfiche e macabre danze di piacevole sofferenza. Ed ecco giungere un miope Narciso, prodigo di muschi vischiosi e rancidi. Ride come un satiro satanasso e marpione mentre mi invita a rifugiarmi in antri d'ostracismo disperato e desolato. Io mi specchio nelle deformità dolorose di passati e
presenti ruvidi e impertinenti come gli occhi di un elfo seduttore e traditore, ma gli alambicchi chimerici e nefandi di queste sabbie tempestose e nostalgiche divengono il mio sangue, la mia pelle, il mio corpo.
Diplopie marmoree ormai hanno violentato le mie pupille, e il doppio
scivola in me e stilla dai pori lussuriosi dei miei umori incomprensibili.

Chiara Manganelli

METAMORFOSI

Tristezza e rabbia.

Mani imprecise, dita di ghiaccio, che trasformano ogni dolce delizia in fiele. L’amaro è struggente, intenso, insopportabile. Si espande come una macchia infestante attraverso gli odori e i gusti. Tutto si adultera, si sciupa. Il sapore diviene lama rovente che brucia la lingua, che squarcia la sensualità e il piacere. Nessun colore, nessun calore. Quella odiosa tristezza sale come schiuma da un mare plumbeo e torvo, si mescola ai cibi e li condisce con il suo veleno.

Se cospargo di dolore coloro che si cibano delle mie emozioni, quel dolore sordo mi rimbalzerà indietro, come una nemesi, ed esso mi schiaccerà, mi imprigionerà in una cella buia e fredda, da cui sarà impossibile fuggire. Ciò che do mi torna indietro, è un’equazione elementare, quasi banale. E’ il gioco dello specchio. Ma lo specchio spesso si deforma, si trasforma, si riempie di simboli arcani e misteriosi.

E allora vado a cercare l’amore, sepolto sotto la cenere, nascosto tra gli anfratti della mia mente, accoccolato sulle mie labbra, in attesa di essere spolverato e accarezzato. Lo prendo, lo ricompongo, lo accendo. Gioco col tempo, sovvertendo le convenzioni e le convinzioni. E quell’amore diventa una marmellata rossa e sensuale, che sporca le labbra e le dita di prelibata lussuria. Dolcezza che si sprigiona in un boato improvviso, che scoppia, esplode, in un tripudio di estasi infuocate.

E le mani toccano, esplorano e sfiorano la materia, la plasmano e la trasformano, in una giostra di piacere infinito, dove ogni briciola è un tesoro prezioso, ogni ingrediente meraviglia da sperimentare, per regalare a qualcuno tutto quel piacere vibrante e cangiante.

Chiara Manganelli

martedì 20 maggio 2008

UN PORTO

Un porto, un attracco.

Miraggio sognato nelle notti inquiete e burrascose, tra le pioggie dell'oceano in tempesta, tra i sibili sinistri delle bufere, tra la stoffa pesante delle vele, lacerate dal vento di tramontana, impregnate di sale e schiuma.

Fata morgana che appare tra il tremore dell’albero maestro e lo scricchiolio della chiglia.

Fermarsi, per riposare le membra, per rifoccillare il cuore. Fermarsi a calpestare la terra ferma, a lambire il cielo, senza più dover contare le nuvole, senza più dover fuggire da qualcosa di oscuro che corre più veloce di noi, senza più dover inseguire l'orizzonte che seduce e inganna, senza più doversi piegare agli umori di un mare iroso e capriccioso, che tanto dà e tanto toglie.

Ulisse invecchia, giorno per giorno, e sogna ancora la sua Itaca, illusione e incanto di deliri onirici, vago e mesto ricordo ormai confuso e sbiadito come un disegno su un sasso consumato dalla sfrontatezza delle onde. Sogna e intanto prosegue il suo cammino, la sua odissea, tra torvi ciclopi e ammalianti sirene. E questa eterna ambivalenza, tra andare e restare, tra odiare e amare, spezza le vene e toglie il respiro. Ma questo è la vita. Perchè è dalle polarità contrarie che si genera l'esistenza, e senza il buio non esisterebbe nessuna luce.

Antitesi continue e stremanti, altalene che danzano in quest'aria ambigua, carica di odori, colori e dolori.

E a ciò mi piego, smetto di pormi domande e di cercare risposte. Smetto di torturarmi e trastullarmi tra gli aculei affilati della mente, che svia e confonde, che travia e logora.

Stanca e prostra questo viaggio perenne, senza fine, senza scali, senza meta, senza condoni, senza più occhi da toccare, senza più braccia da stringere e respiri da origliare, nella dolcezza senza fine del silenzio.

Un fuoco divampa ancora nel fondo di uno sguardo sperso e irrequieto, ma si spegne giorno per giorno, perchè la nostalgia è come un tarlo, che si insinua nel cervello e nel cuore, scava piano ma inesorabile, e arriva a divorare anche le ossa.

Un'àncora si aggroviglia fra le viscere degli abissi, spostando frantumi di azzurro. Finalmente un lembo di terra. Finalmente uno scorcio di calore, un sentiero abbarbicato tra il profumo dei pini e il giallo dei limoni.

Un faro, uno spiraglio abbacinante, che illumina il nero della notte.

Ma l'àncora è di cartapesta, e si scioglie come rugiada al sole, e la luce un singulto evanescente, che si infrange come una goccia di cristallo schiacciata da dita maldestre.

Il buio ritorna ad avvolgere i pensieri. E un carro nel cielo non basta a fuggire via.

Non basta la forza che affonda le radici nella Vita, perchè quelle radici ormai sono sfibrate e sfilacciate, consunte da delusioni, sconfitte, tradimenti, sofferenze. Perchè la forza si è spenta, si è trasformata in fragilità diafana e opaca. Troppa melma ha adulterato la vividezza del fuoco.

E allora quale Itaca, quale Penelope, potranno ancora tornare o arrivare, se Ulisse deciderà di capitolare?

Quante vite possiede l’araba fenice?


Chiara Manganelli

INEDIA

Ogni giorno il sole, orologio molle trasudante perversione, scandisce e centellina le meticolose e ossessive torture. Ogni cosa al suo posto, con estrema dovizia. Riti, milioni di riti assurdi, senza i quali perdo il senso dell'esistenza.

Corro trafelata e madida di sudore verso chimere di ghiaccio che mi guardano sardoniche, con addosso una camicia di forza che mi opprime il cuore. Ho dimenticato la sensualità. Ho dimenticato la mia femminilità. Uccise, spinte nell'oblio: è un fio da pagare, non c'è scelta.

Gli occhi dei fantasmi del passato, torvi e lividi, mi circuiscono sospingendomi dentro il buio di spirali di follia e baratri di nullità. Ma io sono più forte, ne sono sicura: li acceco e li anniento. E così perpetro la mia disgregazione. Ma che importa? In fondo è solo un corpo, ed io ho il potere di prostrare questa carne pretenziosa e capricciosa. Non esistono bisogni imprescindibili, esiste solo una mente che DEVE esercitare il suo controllo superbo e austero.

Ancora specchi che mi deformano. Assassinerò queste membra odiose per salvare la mia anima. O mi ammazzo o muoio. A che cosa rinuncerò? Cedere è un ludibrio inaccettabile. Questa prigione ascetica e asettica mi tiene in piedi. Se mi libero rischio di spappolarmi come un frutto troppo maturo.

Ho paura, sento che il filo che tiene uniti anima e corpo si assottiglia sempre più e si consuma. Ormai si sta lacerando. Mi vedo sempre più lontana, piccola, imperfetta, frammentata e frantumata. I miei pezzi roteano in aria come petardi impazziti e si immergono autocompiaciuti in un liquame melenso che pare ambrosia. Ma è fiele.

"Eppure io sono forte" - mi ripeto - appesa al cappio sfilacciato del mio delirio di onnipotenza. Riesco dove gli altri falliscono. La debolezza è una terra straniera e selvatica su cui mai approderò. La privazione è la mia àncora di salvezza, la musa che mi dona esaltazione e mi salva dal naufragio.

I miei occhi sono iniettati di cemento liquido che pietrifica la luce. Nelle mie mani stringo cristalli di sale pungenti come aculei, e con essi trafiggo le mie passioni e i miei istinti.

Pezzi, miriadi di pezzi ignobili e inutili: cosce, seni, natiche, pelle, braccia, ventre, vagina, labbra. Da mordere, mortificare, martoriare, dilaniare, squartare, sconquassare.

E il mio sangue è nutrimento prelibato per quei vampiri sepolti nel passato. Le fiere nascoste nei cammini di ieri si abbeverano delle mie ferite con ingordigia e voluttà, supplicandomi a mani giunte, con disgustosa ipocrisia, di fermare questa giostra InFame. Affondano i denti beffardi e struggenti nel mio sesso, nelle mie vene, nel mio cervello. Arriveranno a succhiarmi anche le ossa.

Sono l'ombra di me stessa. E questa è la loro punizione, la loro nemesi, la mia vendetta.

Il dolore è la mia moneta, il mio riscatto. Non vedo altre strade: sono paralizzata dalla cecità.

Il senso di colpa agguanta il mio cuore: forse non lo meritano. Ho addosso il marchio indelebile dell'ingratitudine, che fedifraga!

Ma forse nemmeno io meritavo tanta sofferenza.

Il mio sguardo si è trasformato in un deserto. Il mio tempo si squaglia e si scioglie, i miei cassetti sono stati aperti e depredati, e lembi del mio essere vagano qua e là, sorretti da stampelle barcollanti e instabili.

Questo apparente benessere è acqua putrida che scivola tra cascate di illusioni caduche e inganni ignobili.

Controllo, controllo, controllo. Misurare tutto, programmare ogni respiro, ogni movimento, ogni mutamento, ogni umore. Stremarsi di fatica e rinunce: ecco l'allucinante gioco sottile che tiene in vita il mio volto anemico, il mio ologramma.

Devo essere una macchina, precisa fino allo sfinimento. Ogni cellula deve essere conservata in atmosfera controllata. Sono un esperimento criminale e plumbeo.

Alla gogna ogni invasione! Buttare via il più possibile e fare entrare il meno possibile: questa è la mia legge InFame. L'introiezione mi distrugge, mi fa implodere ed esplodere come un palloncino gonfiato oltre il limite immaginato e consentito. Mi nausea questo corpo che incalza e chiede: devo eliminare la sua altera e arrogante saccenza…

Ma esso ogni tanto ha la temerarietà di vincere qualche battaglia, eludendo l'esercito inoppugnabile e terrificante stagliato a difesa delle scorribande barbariche: allora è la fine. Da fedele complice della mia visionaria schizofrenia diviene mostro ingrato e traditore. A questo punto entra in scena il prologo sommesso e maledetto di un efferato stillicidio. La mano di Edipo colpisce e uccide il suo stesso sangue.

Osa chiedere e ancora chiedere, ingordo, insaziabile, laido, obbrobrioso. Ed io perdo il controllo, da carnefice divento vittima e mi lascio soggiogare dalla sua crudele rivalsa. Ma forse prima non ero vittima?

E allora stilla e strilla il dolore. Intorno a me solo più notte e caverne infinite dove il buio odora di spavento e terrore. "Mai più", mi dico, mentre le dita scarne scavano in gola, rovistando e rovesciando le viscere piene di colpe imperdonabili.

"Svuotati ora, torna fiore esangue ". E mi pare di risorgere e rinascere. L'agonia calcolata è l'unico modo che possiedo per essere, per sentirmi qualcosa. Sventolo, aggrappandomi disperatamente all'aria come un cencio slavato. Confondo la morte con la vita: oltraggio e insulto voluti e cercati fino allo spasimo.

Non trovo, non vedo, non sento altra soluzione. Il cerchio non ha inizio né fine e non c'è modo di spezzarlo. Dov'è il bandolo di questa oscena matassa?

Quale dio terreno o soprannaturale giungerà a fendere l'angoscia, a scalfirla, a piegarla, ad addolcirla, a placarla, liberando la mia anima da queste soverchianti e ammalianti catene?

Lo devo cercare qui o altrove?

Ma intanto la mia unica musa è la perfida inedia. E l'amore si è trasformato in un involucro vuoto che si camuffa e si svende, dimentico delle sue radici.

L'amnesia è la mia legge e la mia condanna.

Chiara Manganelli

GENESI DEL CIBO COME ATTO DI VITA E NON DI MORTE

Fremere e pulsare di onde spumeggianti dentro i miei occhi: azzurro che divora l’azzurro, enorme cuore che pompa un sangue fatto di frammenti, desideri e rimpianti.

Corse a perdifiato sotto un cielo terso, cosparso di sogni e paure.

Anni brillanti, innocenti, leggeri, ingenui, sensuali, spalancati su mondi possibili e impossibili.

Anni che si sono accoccolati in fondo al cuore, depositando montagne di dolcezza tra le labbra, come il mare i detriti.

Ma certe dolcezze si sono guastate, diventando amare e opache tra gli specchi distorti della memoria, come cibo avariato dalla troppa attesa.

Altre si sono trasformate in meraviglie ancora più sublimi. E ciò che pareva fiele si è tramutato in ambrosia: imprevedibile e seducente è il gioco delle metamorfosi dei sensi.

Potere sconfinato della mente, che, attraverso fili invisibili, muove, come fossero capricciose marionette, le sensazioni, le emozioni e i sentimenti…

E lungo quei ciottoli accarezzati dalla brezza salata e inquieta, un tripudio di odori e sapori mi avvolgeva con tenerezza e forza.

Risalendo da un palcoscenico di cobalto opalescente, il gusto della salsedine si mischiava al profumo delle more e dei limoni. Il giallo e il viola si stagliavano sulle mie palpebre di carta di riso, come il tramonto sull’orizzonte.

In mezzo alle mulattiere scoscese, avvinghiate alla canicola, la polpa dei fichi maturi si scioglieva tra le mie dita tremanti, mentre le urla giocose delle cicale mi riempivano le orecchie.

E l’arancione prorompente delle albicocche si adagiava sulla mia gola, accompagnando le mie fantasie di bambina spensierata.

Schegge di sublime bontà infilzavano la mia piccola lingua, laggiù dove il sole e l’anima svernano.

E quando il giorno si assopiva tra le braccia della sera, un cassetto magico finalmente si apriva, e tante piccole pastiglie colorate apparivano come per incanto, lucenti e accattivanti, balzando in bocca con voluttà e ingordigia.

Fu l’amore di mio padre a far germogliare in me il seme di questa passione.

Furono le mille sere accese da milioni di balocchi. Furono quei chicchi di mais scoppiettanti, che esplodevano in forme surreali e chimeriche, bianchi come fiocchi di neve. Fu la matassa stucchevole dello zucchero filato che ogni domenica impiastricciava il mio viso. Furono le innumerevoli volte che vidi il misterioso sortilegio compiersi davanti ai miei occhi avidi di curiosità. Furono quelle ore interminabili trascorse acquattata in un cantuccio o nascosta sotto un tavolo, investita da raffiche ruggenti di profumi inebrianti.

Imparai col tempo che la materia si può plasmare a proprio piacimento, e da informe può cangiare in magnifiche sembianze, e che i gusti si possono mescolare in infinite combinazioni, sortendo alchimie inaspettate e sorprendenti.

Ma solo l’amore può insegnare l’amore.

Più tardi capii che il cibo è vita e non può essere morte, e che come tale, quindi, deve rispettare e celebrare la vita.

A quel punto la frattura col mondo si fece cocente e dilaniante, ma inevitabile.

Perché solo la vita può generare altra vita.


Chiara Manganelli

CADUTA DEL SOGNO INFANTILE

Tra i ricordi del giorno e le attese della notte, mentre il sole ammainava la sua vela violacea e iridescente, una giovane donna stava distesa sulla battigia percossa e picchiata dall'ira giocosa del mare. Ma il furore delle onde si faceva via via più acceso, avido, impertinente, minaccioso, e la

spuma gorgogliava e imprecava, torva e sordida, schizzando nell'aria spruzzi della sua saliva salina.
La donna vomitava veemenza e beatitudine dagli occhi ubriachi di scintillante e disarmante vitalità. I suoi pensieri si riversavano nell'oceano e si perdevano nel brulicante e sommesso sciabordio di acque irrequiete e frementi. Il suo profilo ricordava le linee spezzate e imprecise di schizzi andalusi disegnati con la sanguigna dalle mani ruvide e coriacee di artisti nomadi e fuggitivi. La sua pelle era la mia, il suo corpo era l'ombra di un Io che fui.
Adagiata sull'orizzonte, la sagoma indefinita di una barca altera e altezzosa fendeva l'indaco mosto con precisione chirurgica, come un bisturi fende le carni. La sua stiva racchiudeva balocchi e deliziose prelibatezze.
Ma la sua carena era fatta di legno marcio e consunto, e la chiglia scricchiolava, cedeva e annaspava quando la tramontana schiaffeggiava e oltraggiava l'oceano. Eppure lei aspettava trepidante quella barca, ogni giorno, con fedele, instancabile e doviziosa devozione.
Intrecci infiniti di alghe giacevano inerti ai suoi piedi, come corde tessute per calarsi negli abissi del vento e giungere fino al ventre di un ammaliante scrigno satollo di inimmaginabili segreti. Costellazioni di conchiglie abbarbicate su speroni scoscesi divenivano chiassosi ed esaltanti monili con cui addobbare mani affusolate e inquiete, e vesti con cui circuire e avviluppare corpi discinti e lascivi.
L'incauta principessa ignorava la differenza tra realtà e sogni di realtà.
La clemenza dell'illusione cullava le sue membra e difendeva dal dolore i suoi sospiri fragili.
E il cielo, seppur rabbruscato e plumbeo, per lei era sempre diafano e privo di qualsiasi minaccioso nembo grazie all'alchimia sapiente e paziente di placidi e benevoli folletti incantatori.
I rayogrammi del passato e del futuro si mischiavano e incedevano accompagnati da sardoniche sarabande e seducenti milonghe. Il senso era quella barca traballante, sempre capace di attraccare in un presente lucente e lineare.

Grazie ad essa ogni riflesso d'anima riluceva secondo un equilibrio perfetto e solare.
La chiatta profondeva misteri e avvenenti bellezze rubati a mondi lontani. La sua àncora avvinghiava le spalle scarne della ragazza, ed ella gettava i suoi pianti e le sue gioie in mezzo ai mozzi chini sulla prua.
Spezie, speranze e profumi orientali corrodevano la pelle, e lo squagliarsi dei sogni si celava dietro il suono suadente di dolci nenie africane in cui indugiare e a cui abbandonarsi inerme.
Intanto mille serpenti subdoli si rigeneravano in fondo a biechi baratri intrisi di ambigue metamorfosi, strisciando e sibilando infide promesse. Fu impossibile, ad un certo punto, ignorare l'avanzare inesorabile di ghignanti e crudeli megere che affollavano l'aria ed esalavano putride essenze di sofferenza.
Lei, rabdomante rutilante, riluttò ad accettare la diserzione della magia.
Continuò, caparbia e ostinata, a cercare timidi e teneri rigagnoli d'acqua, anche adulterata.
L'elegia mesta della frammentazione esplose maligna e furtiva.
Un folle e impietoso chiasma mischiò e invertì l'ordine dei sentimenti con subdola voracità.
L'accorata e fumante sofferenza s'incagliò sulle ossa bianche di genti trasformate in tetri e truci fantasmi.
La fine del sogno infantile generò l'inizio dell'adulta realtà sognante.
Mai fu possibile discernere il delirio onirico dalla reale realtà.
Ora due mondi antitetici e complementari camminano paralleli, si intrecciano e si plasmano a vicenda. Dove sia la vita vera ella non è in grado di stabilirlo. Vive sospesa, precipitando, secondo logiche verticali e trasversali, attraverso dimensioni non lineari di temporalità; logiche forse circolari, forse puntuali, dove nell'attimo è racchiusa l'eternità.
E così il mondo interno e quello esterno si fondono e si compenetrano, pur nella loro logorante dualità. Ma allora perché esistono maledetti intrecci di sevizie e di laceranti dolori se i tempi, i luoghi e i mondi aderiscono al nostro Io e da lì si dipanano? Forse perché, per fortuna, non siamo
onnipotenti, ci mancano miliardi di tessere per capire e introiettare il mosaico, e tante di queste tessere sono nelle mani di esseri umani che, per quanto possiamo amare, odiare, sfiorare, lambire, penetrare, sono altro da noi, vivono nel loro tempo, nel loro mondo e nei loro luoghi. A volte ci si incontra e ci si sincronizza su audaci e meravigliose gioie, altre volte si allunga disperatamente una mano ma non ci si riesce a toccare, scalfire, perché entrare in altri universi spesso
è arduo e impossibile. Oppure si crede e ci si illude di stabilire un contatto, di gustare e coltivare l'intimità altrui, ma poi ci si invischia in laidi inganni, in vili e meschini ricatti, in perversi giochi assurdi e stremanti.
E così rimaniamo, come mendichi infreddoliti e intirizziti, fuori, dinnanzi a porte sbarrate, a elemosinare un senso che mai troveremo, nè negli altri, nè, spesso, in noi.


Chiara Manganelli

L'ALTERITA' CHE DA' SENSO AI SENSI

Incontro, denso di tenerezza, come la polpa di un frutto maturo che accarezzi il palato e imbratti le le mani. Odore di dolcezza d'anima che si espande nella bocca, come un'esplosione di profumi ruggenti e sapori sapienti. Incontro di una mano incerta con il manto tenero e caldo di un corpo. Incontro di occhi, diversi nei destini, uguali nelle origini. Incontro di cammini che si intersecano nelle viscere fino a confluire in un unico punto. Due orme sul sentiero dell'arroganza, quattro su quello della bellezza. Perchè Il tempo ha incrinato e distorto gli specchi, ha adulterato il senso.

Mi vedo in quegli esseri, scorgo ancora un brandello logoro del mio passato, e in quegli sguardi c'è tutto quello che non voglio capire del mio presente.

Osservo quelle vite in fermento nella trasognanza inquieta di chi sente senza comprendere e sa che comprendere non è più necessario, e non è necessario spiegare. Mi nutro della loro sublime arte del dare senza chiedere, e da loro la imparo.

Noi, che deprediamo e rubiamo la vita per illuderci di poter vivere, paghiamo ogni giorno un fio salatissimo per la nostra saccente sfrontatezza. I gorghi bui della prepotenza ci divorano, fino a farci diventare carnefici di noi stessi.

Ciò che è importante è tutto lì, nell'intensità sottesa e velata di un attimo impalpabile, dove la realtà si trasfigura e il cuore penetra altrove, in uno spazio che non ha più bisogno di parole, ma solo di gesti abbozzati dall'intenzione e generati dalla passione e dall'istinto.

La comunicazione si ribalta: parte da lontano per andare ancora più lontano, e si acquatta lieve in spirali di confortante vicinanza. Le labbra non devono più muoversi per articolare l'indecifrabile, ma solo per percepire il gusto frizzante e sferzante del vento, della pelle, della materia, perchè le emozioni si riversano come ambrosia nel calice della vita, e tutti vi si possono abbeverare. Le dita intrecciano i nervi, il cui bandolo introvabile appare ora evidente.

In questi esseri trovo le radici mie e della mia balzana specie, e trovo tutto ciò che non ho mai osato cercare.

A che cosa mi servono le dita, le labbra, il naso, la vista, le orecchie? Sono solo pezzi inutili di un corpo stolto plasmato da un dio capriccioso che gioca schernendosi delle proprie chimere? O forse la carne parla, non con la parola ma con il sangue che vi scorre dentro e percuote le vene?

E se davanti a me non vi fosse nessuno, solo buio, desolazione e deserto, che cosa me ne farei di questi sensi?

Ciò che percepisco è vita, una vita altra che palpita fuori e dentro di me, all'unisono con la mia.

Ogni creatura, umana o non umana, è una mappa dove io mi ritrovo, dove io mi decifro e mi rifletto. Ma solo oltrepassando l'inganno della razionalità e della superbia potrò addentrarmi davvero nei misteri della vita.


Chiara Manganelli

GRAMMATICA D'AMORE

Occhi cosparsi di parole seducenti e intensità rutilanti.

Bocca che stringe il suggello di mondi arditi e arcani.

Ogni giaciglio gioca a domino

con le pedine della prudenza e dell'attesa,

ogni amplesso lacera il dolore.

Le carezze,

schiaffi di lucente dolcezza,

accendono lampi di sonorità sfacciate

su una pelle sorda e analfabeta.

E il sangue ritrova il sentiero smarrito che conduce al sole.


Chiara Manganelli


VIVISEZIONE


Liberami dal furore della rabbia

e dal ferro della gabbia.

Rimescola il poco sangue che mi è rimasto nelle vene.

Salva la mia carne martoriata

da saccenti menzogne

e da deliri di visionaria onnipotenza.

Un giorno la compassione

fenderà il loro cielo,

e lacrime di acrimonia

corroderanno la loro vile arroganza,

come il magma corrode la roccia.


Chiara Manganelli

domenica 18 maggio 2008

LE CITTA' DEGLI ANGELI


Racconto breve scritto nel maggio 2008 per la rivista “Miele”


Un tiepido vento d'estate leniva la canicola che divampava da un cuore di cemento. Scolpisco, con un battito d'ali, ricordi di grattacieli infiniti, così alti che non ne vedevo la fine, e gli occhi si perdevano nel cobalto.

Un tempo ero una piccola creatura inghiottita da un universo incomprensibile che si attorcigliava intorno ai miei respiri. Rumori, trambusti, sussulti, clamore insopportabile. Ed io, naufrago aggrappato a zattere di nuvole e cielo, sognavo di volare via da quella prigione di lucida follia.

Una mano grande e calda mi trascinava lungo sentieri indecifrabili fatti di metallo e pietra rovente, mentre un brulichio sommesso e incessante mi rimbombava nelle orecchie.

Che cosa c'è in questi dedali plumbei e convulsi? Pezzi di uomini che si dimenano, si scompongono e si ricompongono in una giostra sconcertante e misteriosa.

Sono tutte uguali le necropoli degli esseri umani, qui come in qualsiasi altro agglomerato di artificialità. Tutte uguali le facce, tutte uguali le illusioni. Le solitudini sono appiccicate insieme con calce e malta, per creare una somma incontenibile e mastodontica di solitudini ancora più insanabili, perchè essere circondati da occhi trasparenti e consistenze inconsistenti è ancor più lacerante che trincerarsi dentro il proprio guscio di cristallo infrangibile.

Un giorno, finalmente, volai via. Come una foglia leggera alla prima brezza d'autunno, come lieve foglio di carta strappato da un libro per andare a comporre e inventare un'altra storia, un'altra vita possibile al di là della vita stessa. Divenni evanescente, come sguardo che si perda dentro laghi di leggerezza, eppure più reale di prima.

Ciò che un tempo mi tramortiva e mi sovrastava, ora è nelle mie mani, e posso plasmarlo e trasformarlo a mio piacimento. Non per farmene beffe, non per usarlo come superfluo gingillo alla mercè di un capriccio, ma per cospargerlo di sogni e di luce.

Le mie ali si dispiegano sopra minuscole distese di grigiore, e da esse un pulviscolo di sfavillanti colori si sprigiona e avvolge quei parallelepipedi regolari, come danza di pioggia. E dal silenzio del rumore: un tripudio di musica. Dalle buie maree di torbide solitudini: un fragore assordante di gioia e magia.


Chiara Manganelli


CHI NON HA IL SUO MINOTAURO?

PROLOGO

Terribile chimera, mostro nato da un ventre ubriaco per scherno e punizione degli dei, chi sei veramente? Che cosa vuoi da me?

Come per nemesi infinita, mi condanni a vagare tra i respiri asfittici di un sole nero. Ti rinchiudo fra gli abissi tortuosi del mio labirinto, dove io stessa mi perdo, ti ricaccio giù, nel fondo del fondo, nello spazio obliquo e instabile dove l'anima annega e si contorce.

Ti relego nel regno delle ombre, ma tu, beffardo, ti cibi di esse, le plasmi e le trasformi, conferendo loro sembianze di ammalianti e seducenti sirene, e me le porgi millantandole per splendidi doni. Timeo danaos et dona ferentes.

Così io ti rifuggo, velenoso mistificatore, rabbioso e deforme fantasma che popola le mie notti inquiete.

La mano del tuo stesso padre ti ha ingannato e intrappolato, e per un perverso gioco del fato, la vittima si è tramutata in carnefice.

Quanto sangue ancora, di teneri fanciulli sacrificali, desideri venga versato, prima che la tua incessante sete di vendetta sia placata?

Le Erinni scagliano i loro dardi infuocati su quest'isola tetra, e io assisto inerme alla disfatta, davanti a un cielo livido che annuncia tempeste tumultuose.

Emblema di segreti inconfessabili, di tranelli e illusioni, pagherò questo fio salato fino al giorno in cui non ti vedrò capitolare.

Ma volgi lontano da me il tuo sguardo e trema, poiché dal mare giungerà la salvezza. Intravedo già una vela bianca che porta la luce.

Chi può essere l'impavida creatura che ci affrancherà da questo vorticoso gorgo di ossessioni?

Lui intanto è ancora lì, il mio dolce e terribile Minotauro, a trastullarsi tra le pieghe frastagliate della mia anima. Si attorciglia a ogni umore, si infila in ogni pertugio della mia mente.

Talvolta si assopisce e tace, ma il suo silenzio rimbomba come eco minacciosa e torva, ancor più del suo fragore.


EPILOGO


Il mostro è stato ucciso. Il filo è dipanato. Teseo è stato liberato dalla ragnatela di impervi cunicoli e antri oscuri. Ma chi detiene il bandolo della matassa?

Le gesta di un eroe fedifrago si spengono repentinamente come lingue di fuoco nell'oceano.

Ha giocato a scacchi con la vita, il saccente Teseo, e ha confuso il re bianco con il re nero, così il mare si è tinto del suo stesso sangue.

Ancora una volta le Erinni tendono l'arco e non falliscono il tiro.

Libertà, finalmente, da ogni Minotauro, da ogni Teseo, da ogni Minosse.

E' mio il bandolo della matassa. Quest'isola meravigliosa, cosparsa di luce e lambita da onde danzanti, ora mi appartiene. E’ la mia agognata Itaca, morbido approdo di sublimi sogni e rilucenti desideri.

Qualsiasi prigione può trasformarsi in languido e sfavillante paradiso. Ogni mostro può essere sospinto nel baratro dell'Ade, perché la mano che lo crea, lo può anche distruggere.


Chiara Manganelli


UN’AMICIZIA INSCINDIBILE ED ETERNA

“La vera bontà dell’uomo si può manifestare in tutta purezza e libertà solo nei confronti di chi non rappresenta alcuna forza. Il vero esame morale dell’umanità, l’esame fondamentale (posto così in profondità da sfuggire al nostro sguardo) è il rapporto con coloro che sono alla sua mercè: gli animali. E qui sta il fondamentale fallimento dell’uomo, tanto fondamentale che da esso derivano tutti gli altri.”


Milan Kundera


Era una tiepida giornata di inizio ottobre. L’estate indugiava ad emigrare lontano, attardandosi lungo i giorni, come un ragazzino che rimanga in strada a vociare e giocare oltre il tempo a lui concesso, ignorando i ripetuti richiami materni.

Passeggiavo da adolescente accanto al mio mondo di bambina, fiancheggiando quell’edificio rosso ancora pieno di fiabe, disegni e grembiuli macchiati da arcobaleni di pastelli e marmellata, quando ad un certo punto una voce di donna attirò la mia distratta attenzione.

Ricordavo vagamente quella signora possente e arcigna. E come sempre accade quando si registrano cose e persone nell’età dell’infanzia che poi si rincontrano una volta diventati adulti, ella mi apparve molto meno imponente e minacciosa di quanto serbassi nel ricordo. La memoria, si sa, è come una pelle che si adatta al nostro mutevole corpo, e, come una pellicola sensibilissima, imprime su di sé emozioni e umori, per poi miscelare, in un impasto rarefatto e a volte ingannevole, le sensazioni passate e quelle presenti, sortendo una rievocazione che quasi mai corrisponde alla realtà pura dei fatti. Forse perché essa non esiste, in fin dei conti.

Mi avvicinai a quella figura famigliare che sbraitava dietro la lunga cancellata, attirata dai ricordi e da quei minuscoli batuffoli che si dimenavano sul prato. Spezzai il ritmo concitato del mio passo e mi soffermai per un istante che a me parve impercettibile, ma che ella evidentemente percepì benissimo.

Mi si rivolse in modo burbero: “ Ti piacciono?”

“Certo che mi piacciono!” risposi con un sorriso a metà tra l’ebete e il trasognato.

“Ne vuoi uno?”

Un guizzo repentino di stupore inatteso misto a desiderio si accese nel mio sguardo. E la matrona sicuramente lo colse: “Dai, prendine uno!” incalzò.

“Non posso proprio” risposi con rammarico.

Ma sappiamo bene quanto a volte sia pregnante e lampante il linguaggio non verbale, e quanto spesso il corpo smascheri ciò che le parole nascondono…

Il languore stucchevole dei miei occhi svelò palesemente le mie reali velleità, nonostante i deboli e traballanti tentativi di resistere dinanzi alla sua insistenza.

“Entra, dai, guarda come sono belli”.

Ovviamente entrai. Ed erano davvero belli. Due tenere e piccole palle di pelo, una nera e l’altra marrone.

La donna, per convincermi, cominciò a narrarmi una lunga e svenevole storia strappalacrime sulla sorte delle due piccole creature. Non seppi mai se mi raccontò la verità o se si inventò quell’aneddoto al solo scopo di estorcermi il fatidico “sì, ne prendo uno”. Sta di fatto che il fatidico “sì, ne prendo uno” fu ben presto profferito dalle mie labbra. E probabilmente (ma questo ella non poteva saperlo) non sarebbe neppure occorsa quella vivida e rocambolesca affabulazione!

“ Nero o marrone? Femmina o maschio?”

“La femmina” risposi quasi d’istinto. Mi accorsi che lo dissi perché affiorò alla mia mente, repentina come un lampo, una frase impressa nella mia memoria: “Le femmine sono più affettuose”. Era la voce di mio padre acquattata in chissà quale recesso della mia infanzia.

“Si chiama Luna” mi disse porgendomela con la delicatezza e la dolcezza di chi maneggi un oggetto immensamente prezioso e terribilmente fragile.

Presto fatto: senza quasi accorgermene mi ritrovai tra le braccia quel meraviglioso satellite della Terra.

Avvertii il suo calore che si espanse, attraverso il suo piccolo corpo, fin dentro il mio, come una dolce osmosi di liquido benefico e corroborante che scaldi il sangue.

Mi persi nei suoi occhi, scuri come baratri il cui fondo sia coperto di velluto morbido che accarezza lo sguardo, ne attutisce la caduta e ne placa l’irrequietezza.

Quella creatura pavida e tremante mi guardò, mi scrutò, mi scandagliò.

E mi scelse, pur senza apparente possibilità di discernimento. Chissà che cosa vide in quella fugace radiografia. Forse ossa scomposte da mille fratture.

La chiamano empatia, ma nessuna parola può rendere la complessità di quell’intima complicità, della reciproca comprensione e della profonda affinità che due esseri senzienti, a volte, riescono a stabilire fra loro. E l’empatia si beffa del tempo e sovverte le normali regole relazionali, giacché essa può non crearsi mai, neppure dopo anni e anni di conoscenza e convivenza, mentre può scaturire dopo pochissimi attimi o brevi periodi di frequentazione.

Luna. Ma la sua luce fu potente, folgorante e accecante come quella di un sole, e illuminò i miei giorni per dieci lunghi anni.

Quel giorno, tornando a casa col mio fagotto inerme stretto al petto, ebbi la netta la sensazione che la mia esistenza non sarebbe più stata quella di prima, che qualcosa di inesorabile si era compiuto. Quell’incontro fu un seme. Fu una matrioska che col tempo avrebbe partorito altre centinaia di bamboline, una dentro l’altra. Guardando a ritroso il film della mia vita, mi rendo conto che quell’evento fu l’antesignano di una sequela di altri eventi e mutamenti concatenati, destinati a mutare in modo piuttosto radicale la mia concezione del mondo.

Far sì che il nuovo ospite fosse accettato all’interno della famiglia fu più facile del previsto. Dopo brevi e flebili resistenze, Luna fu accolta e amata da tutti.

Ricordo ancora la prima notte con lei, trascorsa insonne a tentare di abituarla, fin da subito, a dormire nel suo confortevole e caldo cantuccio.

Dopo poche ore di inflessibile opposizione ai suoi caparbi pianti e latrati, l’irreprensibile intento di porre qualche regola educativa e comportamentale capitolò, un po’ per lo sfinimento fisico, e un po’ per la mia fisiologica incapacità di esercitare durezza e rigore con qualsiasi creatura debole e indifesa. Così Luna divenne, quella notte e tutte le altre successive della sua vita, parte integrante della coperta e del letto. E del mio instabile e tormentato sonno.

All’inizio i disastri e i danneggiamenti che ella provocò in casa furono incalcolabili. Ciò causò ire funeste e torve minacce da parte dei miei genitori, ma è fin troppo noto che chi tanto abbaia generalmente quasi mai morde. Così Luna passò del tutto indenne attraverso le innumerevoli catastrofi casalinghe innescate da quel meraviglioso e luminoso istinto di giocosa, leggera e incosciente gioia che solo i cuccioli degli animali e degli uomini possiedono.

Crescendo, la naturale inclinazione al “danno”, peraltro avulsa, in questa fase dell’esistenza, da qualsiasi sentimento di astio, rivalsa o vendetta, ma esclusivamente funzionale alla conoscenza del mondo circostante, si mitigò e infine cessò. Ma a differenza degli uomini, gli animali conservano sempre, anche da adulti, una purezza e una trasparenza di sentimenti e di atteggiamenti che permettono a noi umani di instaurare con essi un rapporto unico e ineguagliabile, che scava alla radice della filogenesi e fa emergere in noi sensibilità, capacità comunicative e intuitività quasi dimenticate, sepolte nella lontana memoria delle nostre origini.

Luna percepiva ogni sfumatura dei miei umori e ogni sottile variazione dei miei stati d’animo. E comprendeva altresì le complesse dinamiche della famiglia, le alleanze, i dissapori, i conflitti espliciti e latenti.

Era un catalizzatore verso il quale convogliavano le emozioni positive, e aveva la capacità di creare attorno a sé una zona franca grazie alla quale si placavano le dissonanze e le controversie. Con la sua presenza riusciva a modificare i tumultuosi rapporti interpersonali, spesso a vantaggio di una diminuzione delle tensioni. E come uno specchio, tutto l’amore che riceveva lo rifletteva indietro, cosicché esso non si esaurisse mai e continuasse ad alimentarsi attraverso quel precario e variabile scambio che tiene in equilibrio il dare e l’avere; e se è vero che tale scambio non è e non dev’essere un’eguaglianza matematica, è anche vero che una relazione non può sopravvivere se esso è fortemente sbilanciato da una parte o dall’altra, oppure sopravvive trasformandosi in un gioco di potere malsano e perverso, fatto di dipendenze e ricatti.

Luna fu al mio fianco sempre, tra le alternanze altalenanti di oscurità e luce, paradigma incarnato della fiducia incontrovertibile, scevra da qualsiasi fine sotterraneo e nascosto. La lealtà per antonomasia, lontana anni luce da quel tripudio di dinamiche spurie, meschine e abiette che imperversano nell’universo umano.

Fu al mio fianco nei giorni felici e abbacinanti, nei giorni bui e amari, nelle notti cosparse di dolcezza e speranza, e in quelle popolate da incubi, angosce e deliri. Fu al mio fianco nella fatica immane e titanica che comporta l’inesorabile e ineluttabile passaggio dall’adolescenza all’età adulta, e fu grazie a lei se il disincanto e le numerose disillusioni non riuscirono a cancellare in me quel magico e sublime slancio che consente di rimanere sempre un po’ bambini, conservando il gusto per il gioco, il sogno, la fantasia, il paradosso, l’ingenuità e l’immediatezza.

Per capirsi non erano necessarie le parole, bensì bastava l’eloquenza degli occhi e del corpo, e l’accendersi di sensibilità sottili e arcane.

Talvolta ci è concesso di uscire dalla “caverna platonica” per arrivare a percepire non solo ombre, ma anche la realtà che le genera: sono circostanze preziose, che capitano raramente.

In quei dieci anni di convivenza si stabilirono tra noi un’intesa e una complicità salde e incrollabili. Condividevamo tutto. Non potevo neppure immaginare la mia vita senza la sua presenza, senza il calore splendente dei suoi occhi.

Eppure un giorno infame e tetro, dopo un periodo di malattia, Luna se ne andò.

Se ne andò perché decisi di risparmiarle una fine dolorosa. L’ultimo atto d’amore che potevo compiere per lei era regalarle una morte dignitosa e serena, e dispensarla da tremende agonie. E così feci. Fu una delle decisioni più difficili e laceranti della mia esistenza. Ma agire diversamente, prolungando la sua sofferenza, avrebbe significato dar ascolto al mio arido egoismo anziché all’amore e alla compassione. Perché amare davvero significa volere il bene dell’altro, anteponendolo al proprio.

Sapevo che quel maledetto giorno sarebbe prima o poi sopraggiunto, ma come sempre avviene per le cose scomode, terribili e sgradevoli, si cerca di allontanarne e procrastinarne il pensiero, fino a che la durezza velenosa e dilaniante dell’evidenza ci colpisce e ci tramortisce, come un pugno sferrato dritto alla bocca dello stomaco, ed allora diviene impossibile sfuggire ancora alla crudezza agghiacciante della realtà.

Se da una parte ella restò accucciata tra i miei respiri e avvinghiata tenacemente alla mia anima, dall’altra volò via come un gabbiano, e con lei una parte di me. Coloro che amiamo profondamente, andandosene, ci lasciano sempre un marchio indelebile del loro passaggio, ma al contempo si portano con sé miriadi di brandelli e frammenti di noi. E noi che rimaniamo qui, reduci allampanati e smunti, schiacciati e paralizzati dal gelo, vediamo e sentiamo solo inferno, rabbia e sofferenza. E la ricchezza impareggiabile che un amore intimo e intenso elargisce sembra non riuscire ad esautorare l’atroce crudeltà della perdita. Ci sentiamo soli, indifesi, feriti; piccoli esseri barcollanti e incespicanti alla mercé delle bufere vorticose e dei capricci del destino. In quei momenti esistono solo il vuoto e un dolore sordo e intollerabile che rimbomba fragorosamente dentro le tempie, e che sembra spezzare irrimediabilmente le vene e i nervi.

La mia piccola bambina si abbandonò e poi si addormentò fra le mie braccia, come un guerriero spossato ed esangue che abbia troppo a lungo combattuto in

territori stranieri per espugnare roccaforti e torrioni, con la terra natia dentro il cuore. Si assopì come un marinaio che abbia affrontato mille tormente e naufragi, con l’oceano e il vento dentro lo sguardo. Morì con la dolcezza serafica e lieve di chi non abbia più conti in sospeso, ma solo crediti, con l’esistenza. E più di lei morirono coloro che la amarono, con addosso il rancore di chi acclami la vendetta per estinguere l’ingiustizia.

Non c’è nulla che ripaghi, che lenisca, che consoli, che conforti. E quando persino le lacrime esauriscono il loro copioso flusso, gli occhi rimangono asciutti come deserti immobili, come lividi e foschi crateri, privi di fulgore e vividezza. E la luce e i colori sembrano immensamente distanti, destinati a non fare più ritorno.

Restituii il suo corpo alla terra e al mare.

E ora su quel lembo di terra prospiciente il mare vi è un magnifico e rigoglioso albero di fiori colorati e lucenti. E ogni volta che guardo quella vita generata da un’altra vita, penso che forse non esistiamo invano, e gli occhi di Luna riappaiono limpidi, fulgidi e brillanti in mezzo ai teneri petali e alle fronde di quel bellissimo e timido albero…


Chiara Manganelli

POLLI D'ALLEVAMENTO


“Polli d'allevamento”, scritto nel 1978, è uno degli spettacoli più intensi e polemici del “teatro canzone” di Giorgio Gaber.

Quest'opera, interpretata magnificamente da Giulio Casale, che rassomiglia a Gaber in modo sconcertante (nella mimica, nei gesti, persino nel timbro della voce), viene riproposta del tutto fedelmente, con arrangiamenti musicali di Franco Battiato e Giusto Pio.

Le disillusioni e i dubbi già presenti in “Libertà obbligatoria” qui si acuiscono e diventano rabbiosa certezza e sarcastico pessimismo. Le istanze rivoluzionarie del '68 si sono ormai spente. Ogni velleità di trasformazione politica e sociale si è svilita e appiattita. Gaber, con lucidità, intelligenza e ironia, dà sfogo a un'invettiva rassegnata e dolorosa in merito al degrado ideologico che permea quegli anni. Nelle sue parole si sente il sapore di un'amarezza livida e di un'impotenza estenuante, le cui uniche vie d'uscita sembrano essere l'isolamento e il disincantato distacco da ogni fugace moda.

L'anticonformismo a tutti i costi diviene una forma di conformismo al rovescio, e l'istrionico e sagace artista pone sullo stesso livello quella generazione di sedicenti giovani rivoluzionari e la borghesia reazionaria, ottusa e conservatrice contro cui quegli stessi giovani dovrebbero e vorrebbero lottare per rinnovarne i valori e fondarne di nuovi. Ma questi nuovi valori in realtà sono solo una posa, una patetica millanteria dietro cui si nasconde un terribile vuoto. La delusione è cocente. Il fermento, lo slancio e gli aneliti del sessantotto si sono tramutati in stridente qualunquismo a buon mercato. Non esiste più alcun sentimento di appartenenza, alcuna autentica manifestazione di partecipazione collettiva; ci si sente smarriti e irrimediabilmente soli. “Sono diverso e certamente solo” declama Gaber, con rammarico e orgoglio, in “Quando è moda è moda”, la canzone certamente più provocatoria e violenta di tutto lo spettacolo.

“Polli d'allevamento”, dunque, sancisce la presa di coscienza del fallimento di un sogno. Come il cantautore affermerà molti anni più tardi, riferendosi a un altro grande fallimento storico e politico: “ci si sente come in due, da una parte l'uomo inserito, che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall'altra il gabbiano, senza più neanche l'intenzione del volo, perchè ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo”.

E, a trent'anni esatti di distanza, “Polli d'allevamento” è ancora estremamente attuale. Qui sta la grandezza di questo eccezionale artista: non ci si stanca mai di ascoltarlo. Le sue analisi sociali sono sottili, profonde, illuminanti e dotate di un acume impareggiabile. Egli riesce a scavare nell'animo umano e nella cultura di un'epoca con una vis intellettuale sorprendente, e, allo stesso tempo, con ironia, autoironia, vivacità e giocosità, senza mai scivolare nella retorica, nella demagogia e nella banalità.


Chiara Manganelli


LA SOLITUDINE DEI NUMERI PRIMI


La solitudine dei numeri primi”, opera prima del giovane scrittore emergente Paolo Giordano, cattura e ammalia per la sua prosa pregnante e vivida, ma al contempo languida e delicata, profonda e intima, a tratti lucida, concitata e cruda.

La narrazione si snoda attraversando le vite dei due protagonisti, Alice e Mattia, entrambi segnati dalla ferita indelebile di un trauma vissuto nell’infanzia. La cicatrice di questo dolore permane inesorabilmente lungo il sentiero delle loro esistenze, si attacca alle ossa, si imprime nelle loro anime e nei loro corpi, condannandoli a girovagare nella propria rassegnata e mesta solitudine, cercando invano di colmare il vuoto vertiginoso che alberga nei loro destini.

Alice e Mattia sono come dei numeri primi gemelli: in matematica vengono definiti in tal modo coppie di numeri che si trovano vicini, fra i quali vi è sempre un numero pari, cosicché essi giacciono attigui, ma mai abbastanza per sfiorarsi e compenetrarsi davvero.

I due ragazzi si inseguono disperatamente per tutta la vita, senza riuscire mai a lambirsi e a stringersi, perchè “le scelte si fanno in pochi secondi e si scontano per il tempo restante”, e le loro strade, proprio nel momento in cui stanno per intersecarsi, si dividono. Basta un attimo di esitazione e titubanza, una frase abbozzata, l'aferesi di un'intenzione, un afflato di desiderio che rimane sospeso nell'aria, e la scelta è compiuta, e porta due anime a ruzzolare agli estremi opposti di una linea sottile tracciata nel tempo e nello spazio. Eppure tra i due giovani esiste un filo persistente e invisibile, teso su un terreno di attrazione ambivalente e instabile, che, pur sfilacciandosi, non si spezza mai.

Mattia, affondato nel suo agghiacciante isolamento, rifugge qualsiasi forma di piacere. Pare un essere assolutamente incapace di lasciarsi trascinare da guizzi di gioia e di aprirsi alle relazioni umane. Chiuso ermeticamente nel suo guscio di vetro infrangibile e immerso in un involucro di autodistruzione, egli si rifugia nello studio della matematica, sua unica compagna di vita, e per difendersi dalla paura dell'amore si esilia all'estero.

Alice, fragile creatura claudicante, consuma se stessa nel baratro dell'anoressia, e per dimenticare la caparbia inafferrabilità di Mattia, si abbandona all'illusione di un amore che si scioglie come neve al sole, lasciandole addosso l'amarezza di un ennesimo fallimento.

Dunque l’autore ci regala una storia affascinante e struggente di intrecci imperfetti, di coincidenze mancate, di convergenze e divergenze, di fugaci istanti che determinano il corso di una vita intera.

Perchè a volte la nostra esistenza è appesa a incomprensibili distorsioni, e imboccare la via dove ristagnano i nostri fantasmi e le nostre paure è un attimo: il tempo di un lampo.


Chiara Manganelli


CARNE DENTRO LA CARNE




Carne che si interseca,

l'una dentro l'altra,

fino a fondersi e confondersi,

in un turbinio di bellezza

che penetra fin dentro l'anima.


Mosaico mistico di corpi inghiottiti

da vortici d'oro e cascate di luce.

E dalle viscere

il seme della vita si espande fino a toccare il cielo.


Corpi fluttuanti,

come onde alla mercè di venti dionisiaci.

Muscoli tesi come archi

le cui frecce fendono il tempo e lo spazio,

per conficcarsi dentro bersagli

che sprigionano gocce di deliquio.


Dolce nettare fluisce

tra labbra vellutate e voluttuose.

Lingue morbide si insinuano

tra pieghe di pelle pulsante.

Perle di piacere sgorgano da torri d'avorio,

cospargono angoli di pelle remota e nascosta.

Le mani frugano dentro l'anima e dentro la carne,

accarezzano grovigli di nervi indolenti,

per trasformarli in gomitoli scintillanti

che si snodano verso l'infinito.


Chiara Manganelli