martedì 20 maggio 2008

INEDIA

Ogni giorno il sole, orologio molle trasudante perversione, scandisce e centellina le meticolose e ossessive torture. Ogni cosa al suo posto, con estrema dovizia. Riti, milioni di riti assurdi, senza i quali perdo il senso dell'esistenza.

Corro trafelata e madida di sudore verso chimere di ghiaccio che mi guardano sardoniche, con addosso una camicia di forza che mi opprime il cuore. Ho dimenticato la sensualità. Ho dimenticato la mia femminilità. Uccise, spinte nell'oblio: è un fio da pagare, non c'è scelta.

Gli occhi dei fantasmi del passato, torvi e lividi, mi circuiscono sospingendomi dentro il buio di spirali di follia e baratri di nullità. Ma io sono più forte, ne sono sicura: li acceco e li anniento. E così perpetro la mia disgregazione. Ma che importa? In fondo è solo un corpo, ed io ho il potere di prostrare questa carne pretenziosa e capricciosa. Non esistono bisogni imprescindibili, esiste solo una mente che DEVE esercitare il suo controllo superbo e austero.

Ancora specchi che mi deformano. Assassinerò queste membra odiose per salvare la mia anima. O mi ammazzo o muoio. A che cosa rinuncerò? Cedere è un ludibrio inaccettabile. Questa prigione ascetica e asettica mi tiene in piedi. Se mi libero rischio di spappolarmi come un frutto troppo maturo.

Ho paura, sento che il filo che tiene uniti anima e corpo si assottiglia sempre più e si consuma. Ormai si sta lacerando. Mi vedo sempre più lontana, piccola, imperfetta, frammentata e frantumata. I miei pezzi roteano in aria come petardi impazziti e si immergono autocompiaciuti in un liquame melenso che pare ambrosia. Ma è fiele.

"Eppure io sono forte" - mi ripeto - appesa al cappio sfilacciato del mio delirio di onnipotenza. Riesco dove gli altri falliscono. La debolezza è una terra straniera e selvatica su cui mai approderò. La privazione è la mia àncora di salvezza, la musa che mi dona esaltazione e mi salva dal naufragio.

I miei occhi sono iniettati di cemento liquido che pietrifica la luce. Nelle mie mani stringo cristalli di sale pungenti come aculei, e con essi trafiggo le mie passioni e i miei istinti.

Pezzi, miriadi di pezzi ignobili e inutili: cosce, seni, natiche, pelle, braccia, ventre, vagina, labbra. Da mordere, mortificare, martoriare, dilaniare, squartare, sconquassare.

E il mio sangue è nutrimento prelibato per quei vampiri sepolti nel passato. Le fiere nascoste nei cammini di ieri si abbeverano delle mie ferite con ingordigia e voluttà, supplicandomi a mani giunte, con disgustosa ipocrisia, di fermare questa giostra InFame. Affondano i denti beffardi e struggenti nel mio sesso, nelle mie vene, nel mio cervello. Arriveranno a succhiarmi anche le ossa.

Sono l'ombra di me stessa. E questa è la loro punizione, la loro nemesi, la mia vendetta.

Il dolore è la mia moneta, il mio riscatto. Non vedo altre strade: sono paralizzata dalla cecità.

Il senso di colpa agguanta il mio cuore: forse non lo meritano. Ho addosso il marchio indelebile dell'ingratitudine, che fedifraga!

Ma forse nemmeno io meritavo tanta sofferenza.

Il mio sguardo si è trasformato in un deserto. Il mio tempo si squaglia e si scioglie, i miei cassetti sono stati aperti e depredati, e lembi del mio essere vagano qua e là, sorretti da stampelle barcollanti e instabili.

Questo apparente benessere è acqua putrida che scivola tra cascate di illusioni caduche e inganni ignobili.

Controllo, controllo, controllo. Misurare tutto, programmare ogni respiro, ogni movimento, ogni mutamento, ogni umore. Stremarsi di fatica e rinunce: ecco l'allucinante gioco sottile che tiene in vita il mio volto anemico, il mio ologramma.

Devo essere una macchina, precisa fino allo sfinimento. Ogni cellula deve essere conservata in atmosfera controllata. Sono un esperimento criminale e plumbeo.

Alla gogna ogni invasione! Buttare via il più possibile e fare entrare il meno possibile: questa è la mia legge InFame. L'introiezione mi distrugge, mi fa implodere ed esplodere come un palloncino gonfiato oltre il limite immaginato e consentito. Mi nausea questo corpo che incalza e chiede: devo eliminare la sua altera e arrogante saccenza…

Ma esso ogni tanto ha la temerarietà di vincere qualche battaglia, eludendo l'esercito inoppugnabile e terrificante stagliato a difesa delle scorribande barbariche: allora è la fine. Da fedele complice della mia visionaria schizofrenia diviene mostro ingrato e traditore. A questo punto entra in scena il prologo sommesso e maledetto di un efferato stillicidio. La mano di Edipo colpisce e uccide il suo stesso sangue.

Osa chiedere e ancora chiedere, ingordo, insaziabile, laido, obbrobrioso. Ed io perdo il controllo, da carnefice divento vittima e mi lascio soggiogare dalla sua crudele rivalsa. Ma forse prima non ero vittima?

E allora stilla e strilla il dolore. Intorno a me solo più notte e caverne infinite dove il buio odora di spavento e terrore. "Mai più", mi dico, mentre le dita scarne scavano in gola, rovistando e rovesciando le viscere piene di colpe imperdonabili.

"Svuotati ora, torna fiore esangue ". E mi pare di risorgere e rinascere. L'agonia calcolata è l'unico modo che possiedo per essere, per sentirmi qualcosa. Sventolo, aggrappandomi disperatamente all'aria come un cencio slavato. Confondo la morte con la vita: oltraggio e insulto voluti e cercati fino allo spasimo.

Non trovo, non vedo, non sento altra soluzione. Il cerchio non ha inizio né fine e non c'è modo di spezzarlo. Dov'è il bandolo di questa oscena matassa?

Quale dio terreno o soprannaturale giungerà a fendere l'angoscia, a scalfirla, a piegarla, ad addolcirla, a placarla, liberando la mia anima da queste soverchianti e ammalianti catene?

Lo devo cercare qui o altrove?

Ma intanto la mia unica musa è la perfida inedia. E l'amore si è trasformato in un involucro vuoto che si camuffa e si svende, dimentico delle sue radici.

L'amnesia è la mia legge e la mia condanna.

Chiara Manganelli

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