mercoledì 25 novembre 2009

CLAUDIA GIRAUDO, IL DAIMON, MENTORE DEL FUOCO DELL'ANIMA



“Quando tutte le anime si furon scelte le vite, nell'ordine del sorteggio si avviarono a Lachesi; e questa a ciascuno dava a compagno il demone che si era scelto, quale custode della vita e adempitore della sorte prescelta. Il quale, innanzitutto, conduceva l'anima da Cloto, a far confermare, sotto la mano di lei e il volgersi del giro del fuso, il destino che nel sorteggio quegli si era prescelto; e toccata questa, lo conduceva poi al filo di Atropo per fare immutabile il destino una volta filato; di qui, senza voltarsi, andava ai piedi del trono di Ananke, e passato attraverso quello e passati anche gli altri, tutti insieme si erano avviati alla pianura del Lete, attraverso una terribile calura e arsura, chè quel piano era privo di alberi e di vegetazione della terra. Fatta già sera, essi si erano attendati presso il fiume Amelete, la cui acqua nessun recipiente è buono a contenere. Tutti dovevan per forza bere una certa misura di quell'acqua, ma quelli non preservati da prudenza ne bevevano più della misura, e chi man mano vi beveva si scordava tutto. Messisi a dormire e fatta mezzanotte, scoppiò un tuono e un terremoto, e di là d'un tratto furon, chi qua e chi là, trascinati su alla nascita, filando veloci come stelle cadenti. Lui, Er, era stato impedito dal bere dell'acqua; e in che modo e come fosse giunto al corpo non sapeva, ma d'un tratto, riaperti gli occhi, si era visto al mattino giacente sopra la pira.
E così, o Glaucone, questo mito si è salvato e non è perito, e potrà salvare anche noi, se gli crediamo; e noi passeremo felicemente il Lete e non saremo contaminati nell'anima. Ma se a me vorremo dar retta, ritenendo l'anima immortale e capace di reggere a tutti i mali e a tutti i beni, ci atterremo sempre alla via che va in alto e praticheremo in ogni modo giustizia con saggezza, sì da esser cari a noi stessi e agli Dei finchè restiamo qui in terra, e dopo, che ne avrem riportato i premi che i vincitori raccolgono, e da trovarci bene sia qui, sia nel viaggio millenario di cui abbiamo discorso.”

Platone, La Repubblica, X, 620-621




Nelle opere di Claudia Giraudo crepita, tra bianchi spazi siderali, un fuoco primitivo e primordiale che, attraverso incessanti metamorfosi e intrepide combinazioni di materia e colore, si trasforma in eidos (forma) raffinata, potente, preziosa, ammiccante e pregnante. Questa forma suggella e custodisce segreti ancestrali, incarna l'idea di se stessi, è “la causa per cui un ente possiede una certa proprietà” (Aristotele), e rappresenta un principio attivo di distinzione dell'essenza con forti attributi ermeneutici oltre che estetici. Essa è un'immagine fondamentale, perfetta (cioè compiuta, secondo l'etimologia latina del termine), che va al di là della precarietà e della dimensione spaziotemporale, perché è.
Io non mi evolvo, io sono” affermò Pablo Picasso. Ed è proprio questo concetto che si percepisce osservando i dipinti della pittrice torinese: le figure trasognanti e impalpabili che popolano e abitano le sue tele sono latori eterei, diafani ed evanescenti, dotati di una potenza incisiva e comunicativa sorprendente, proprio perché sono, perché dimorano in una dimensione fluttuante, irreale e onirica, in uno spazio sospeso, dove non esiste il doloroso e tumultuoso fluire della vita terrena, ma tutto è, e nulla, dunque, (si) succede e si attende.
I volti raffigurati nelle tele della Giraudo sono “stelle di neutroni” dense all'ennesima potenza, carichi di incommensurabile energia; in essi tempo e spazio collassano e implodono, e sfuma la tagliente, ineluttabile e inesorabile linearità dell'esistenza.
Accanto a questi volti appaiono, come alter ego, piccoli animali che fungono da spirito guida: sono i daimon, manifestazioni dell'anima nell'universo fisico, che accompagnano l'individuo nelle sue peregrinazioni terrene, proteggendolo e guidandolo alla ricerca della sua essenza più intima e profonda, della sua vis ontologica, restituendo un costrutto semantico all'apparente casualità caotica della vita umana.
Il daimon incarna ciò che in noi è ineludibile e ineffabile, è un emblema teleologico che elargisce significanza, identità, unicità e potere all'individuo. E' un principio vitale che compare in molte antiche culture del nostro passato. E' un essere che appartiene alla sfera del mito, che scompagina la sistematicità della nostra esistenza e graffia la superficie delle cose per svelarne il senso recondito.
L'albero della Cabala della tradizione mistica ebraica affonda le proprie radici nel cielo: così la nostra anima, che, restia a calarsi e immergersi nel mondo contingente, viene aiutata, in questo difficile processo, dal suo daimon.
Ogni essere, per ananke (necessità), ha un percorso da compiere dove “tutti gli eventi formano un'unità e sono per così dire intessuti insieme” (Plotino), e sceglie un paradeigma, cioè un modello, un'immagine di vita. A ogni anima, secondo il mito platonico, Lachesi affiancava un daimon, “perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto”.
Nelle sue tele la pittrice torinese non intende compiere un'indagine sul volto umano rifacendosi alla tradizione della Fisiognomica classica, che vede i primi albori in Leonardo da Vinci, per poi giungere alle distorsioni aberranti della frenologia del XIX secolo. Non vi è, dunque, l'intenzione di perlustrare i tratti somatici di un individuo per sottolinearne le peculiarità psicologiche e sociali, ma, invece, si vuole elevare l'essere umano a simbolo di perfezione e Bellezza, decontestualizzandolo dal mondo fenomenico a cui appartiene.
Le sue opere, ricche di elementi che rimandano al Realismo magico, non raffigurano delle persone immerse nel loro scenario contingente, ma dei messaggeri - spesso bambini - che, con la loro purezza di esseri divini, stabiliscono una connessione tra il mondo dello spirito e il mondo della materia.
Qui l'immagine si trasforma in icona, e il ritratto diviene simbolo di significati nascosti che vanno oltre l'immanenza. Perché solo superando la propria dimensione soggettiva l'individuo può esperire forme di sé più segrete, alte, imprevedibili e stupefacenti.
Il travestimento assume, quindi, una funzione di nobilitazione, è uno stratagemma per impreziosire l'essere umano e al contempo spogliarlo dei propri abiti consueti, affinché possa scardinare le categorizzazioni soffocanti e spezzare gli schemi limitanti del proprio Io, e accedere così al proprio nucleo essenziale originario. E' importante comprendere che, nel momento in cui viene spogliato o abbigliato con vesti di diversa foggia, l'individuo trascende se stesso, e in questo modo varca i propri confini materiali, supera le dicotomie, i conflitti, la separatezza tra sé e l'Universo, per giungere a una dimensione superiore, ritrovando nell'Unità e nella Totalità la propria natura più profonda.
Claudia Giraudo porta questi concetti sulla tela attraverso un uso poderoso del colore bianco e di toni chiari, di giochi di luci soffuse e ombre delicate, e mediante sfondi materici e informali, che richiamano l'idea dell'indifferenziazione primordiale. Su questi sfondi talvolta appaiono collage di lettere, che sono delle tracce, dei segni del nostro passaggio nel mondo tangibile, per ricordarci che è possibile trascendere noi stessi solo riconoscendoci, partendo dal nostro “destino” e dalla nostra storia, orma indelebile che lasciamo in eredità ai posteri. E srotolando e dipanando la linea temporale delle altrui esistenze, possiamo trovare il bandolo della nostra, sciogliere i nodi interiori che ci intralciano, comprendere chi siamo e da dove veniamo, e sentire l'appartenenza atavica e profonda a un unico percorso universale, che è quello dell'Uomo.




“Nell'evoluzione di tutti gli artisti, il germe delle opere successive è sempre contenuto nelle prime. Il nucleo intorno al quale l'intelletto dell'artista costruisce la propria opera è il suo Io. L'unica influenza che io abbia mai avuto sono io stesso.”

E. Hopper

“Prima ancora della ragione vi è il movimento vòlto all'interno che tende verso ciò che è proprio.”

Plotino, Enneadi, III, 4.6

domenica 15 novembre 2009

MOSTRA DELLA PITTRICE CLAUDIA GIRAUDO


Sabato 28 novembre 2009, a Torino, presso la libreria “Linea 451”, in Via Santa Giulia 40/A , inaugurerà la mostra personale della pittrice Claudia Giraudo “Il sole e la cometa”. In esposizione, fino al 6 gennaio 2010, alcune delle opere più recenti dell'artista torinese.
Alle ore 21.00 verrà presentata una performance teatrale e musicale ideata, scritta, diretta e interpretata da Chiara Manganelli e Luisa Dante. Le musiche sono tratte dalla Suite num 2 per violoncello di J.S. Bach, e verranno eseguite dal violoncellista Alex. Infine sarà offerto al pubblico un piccolo buffet.
Questa mostra rappresenta un ulteriore sviluppo del percorso artistico di Claudia Giraudo. La sua indagine stilistica e concettuale indossa vesti nuove, per giungere a un uso dell'immagine intesa come icona e non come ritratto connotato da precise caratteristiche psicologiche. Nella sua ricerca artistica, dunque, Claudia Giraudo intende elevare la figura umana a simbolo universale e atemporale, per creare un “atto poetico” che trasformi e plasmi una realtà altra, come direbbe Alejandro Jodorowsky.

PROGRAMMA DELLA SERATA

Performance teatrale e musicale ideata per la serata inaugurale della mostra “Il sole e la cometa” della pittrice Claudia Giraudo.

Ideazione e organizzazione evento, testi, sceneggiatura, interpretazione: Chiara Manganelli

Ideazione, regia, interpretazione: Luisa Dante

Costumi e oggetti di scena: La Bottega dell'Attore in Viola
Direzione artistica: Marzia Scarteddu

Interpreti: Chiara Manganelli e Luisa Dante
Musiche tratte dalla Suite num 2 per violoncello di J.S.Bach
Violoncellista: Alex



“Tenebra vi era, tutto avvolto da tenebra,
e tutto era Acqua indifferenziata. Allora
quello che era nascosto dal Vuoto, quell'Uno, emergendo,
agitandosi, mediante il potere dell'Ardore, venne in essere.”

Tratto dai Veda, Nasadiya Sukta (Inno delle Origini), RV X, 129


Da dove abbia origine la creazione dell'universo come lo conosciamo e lo concepiamo, è un controverso mistero su cui l'umanità si interroga da sempre.
Anche l'arte, intesa come atto creativo (oltre che interpretativo) della realtà, è un insoluto enigma seducente.
Questa performance teatrale fornisce allo spettatore alcuni spunti per riflettere e interrogarsi sul potere della creazione, non di un fantomatico dio, ma dell'essere umano.
Il prologo di questo spettacolo è l'Inno alle Origini, tratto dai Veda, antichi testi sacri induisti, che intende descrivere, per analogia, la fase embrionale della genesi artistica. Questo splendido incipit ci porta nell'indifferenziazione, nell'Unità totale, da cui ogni cosa ha origine, ma in cui nulla possiede ancora consistenza e sembianza. Eppure, in questo luogo non-luogo, tutto già esiste in nuce. Come la forma, secondo quanto affermò Michelangelo Buonarroti, è già contenuta nel blocco di marmo, e compito dello scultore è liberarla, togliendo la materia in eccesso, così l'opera d'arte è già presente nell'anima dell'artista, ed egli deve scavare e scandagliare dentro di sé per farla emergere dal Nulla.
Dal Vuoto, dal Nonessere (concetti che non hanno affatto una connotazione dispregiativa e negativa, ma incarnano semplicemente il “preludio” assoluto di ogni cosa), mediante l'Amore, suprema forza creativa primordiale, prende vita il movimento cosmico.
La musica rappresenta questa forza creativa originaria, è l'Armonia che dà al Nonessere l'impulso per divenire Essere, è l'energia palpitante che muta la materia in opera d'arte e l'uomo in artista.
A questo punto la metamorfosi è in atto: le attrici si trasformano, l'una incarnando l'aspetto giocoso, irriverente e irrazionale dell'esperienza artistica, e l'altra la parte ordinatrice e razionale che permette all'arte di diventare intelligibile, e di essere, quindi, non solo urgenza catartica e azione autoreferenziale, ma anche e soprattutto mezzo comunicativo. Questi due aspetti, apparentemente dicotomici, arrivano infine a integrarsi e amalgamarsi attraverso un processo dialogico.
L'artista, dunque, in estrema sintesi, altro non è che un demiurgo, secondo l'accezione platonica del termine: egli è una sorta di artefice divino, una forza cosmogonica che dà forma e ordine alla materia, creando un ponte tra il mondo delle idee e il mondo fenomenico.
E lo spettatore, a sua volta, deve trasformarsi in “attore” affinché l'opera d'arte possa ritenersi compiuta: colui che osserva la creazione artistica non si deve limitare a contemplarla in modo distaccato e distante, ma è chiamato a entrarvi dentro, a specchiarvisi, per scoprire in essa qualcosa di sé e farla propria.

Chiara Manganelli


Per informazioni e contatti:
clodgiraudo@gmail.com
ch.saudade@gmail.com

www.claudiagiraudo.carbonmade.com

sabato 1 agosto 2009

BAMBINA DI IERI, BAMBINA DI DOMANI

Guardo, da finestre affacciate sull’ambiguità sottile del tempo, due occhi blu che si immergono nel mare, che vi si specchiano fino a confondersi con esso. Sgranano filigrane di lontananza inquieta; si rifrangono in baluginii che divengono dardi di dolcezza scagliati contro nuvole di panna montata, così gustose e allettanti da inebriare le labbra vermiglie dei pensieri. Giocano a inseguire pesci scalpitanti e a inventare collane di alghe e bracciali di conchiglie.
Le risate sono candide ragnatele di salsedine che imprigionano l’eternità della notte, per suggellare speranze future che sono già reali in quello spazio recondito e magico che giace sotto la pelle del mondo consueto e conosciuto .
Dedali di languore solcano la sabbia che odora d’oro, e il pulviscolo dei sogni di domani, come stella che dipinga di sfavillanti colori l’oscurità ammaliante della galassia, sparge pioggia di luce iridescente lungo i sentieri del buio immobile.
Nelle mani piccole e goffe stringo tutto ciò che sarà, tutto ciò che ho già vissuto e che vivrò.
La perfezione esoterica del cerchio si compie tra pupille che parlano con il fiato dell’imperscrutabilità apparente. Oracoli di carne e sangue bruciano l’eresia dei dogmi senza bisogno di arroganti sentenze né di pubblici roghi.
Scolpisco, dentro la sostanza lattiginosa e languida della mia anima, frammenti di un tempo invisibile, di speranze silenziose e tremanti. E la linea che generava eventi asincroni e cacofonici, dove io ero sempre in un luogo e in un tempo diversi da quelli desiderati e immaginati, si trasforma ora in un punto, dove tutto è. Senza distanze, senza incongruenze, senza dicotomie, senza convulse corse e logoranti attese.
Gli elfi, con i loro cappelli obliqui e tintinii di fragorose facezie, escono dalle pagine aride e consunte delle fiabe per diventare scintille di sogni che scherniscono la realtà, avviluppandola con seducenti profumi di meravigliosi paradossi.
Il limite stabilito viene superato. Basta scegliere la temerarietà. Basta scegliere di sciogliere il nodo scorsoio che ci lega all’àncora di paure che spezzano il respiro e la fantasia.
Il nostro veliero può rimanere per sempre attraccato a un porto conosciuto che non cangia mai.
Facciamoci invece pirati intrepidi e impudenti; percorriamo l’oceano della vita a caccia di scorribande palpitanti e tumulti travolgenti.
Buttiamoci, come tuffatori pazzi e sconsiderati, a capofitto giù dalla rupe, per volare altrove, oltre ciò che viene considerato possibile. Le nostre ali non sono di cera: il sole ne è la quintessenza, non le brucia, anzi, ne alimenta la consistenza.
Ogni sguardo ci porta sempre più in alto.
Credevo di essermi affacciata a contemplare i ricordi di un tempo che fu. E invece ciò che sto guardando deve ancora avvenire, eppure è già accaduto.
E’ un gioco sublime e ambivalente di specchi e di audaci e rocamboleschi balzi, avanti e indietro, nell’anima e nel tempo. E percorro viaggi emozionanti e imprevedibili, accovacciata dentro un pallone aerostatico indaco che mi avvolge e mi protegge come un ventre materno.
Attingo a quello sconfinato serbatoio di bellezza che scioglie i grovigli degli Io caparbi e accartocciati dentro grumi di stoltezza, e raccolgo la linfa segreta che dona acqua al fiume, aria ai polmoni, sangue alle vene, luce agli occhi, inesauribile e fantasmagorica fonte di vita.

domenica 12 luglio 2009

L'ARTE COME ESPRESSIONE DELLA SPIRITUALITA'

“I filosofi sono in qualche modo pittori e poeti, i poeti sono pittori e filosofi, i pittori sono filosofi e poeti.”
Giordano Bruno, “Explicatio triginta sigillorum”
“La nostra anima si sta risvegliando da un lungo periodo di materialismo, e racchiude in sè i germi di quella disperazione che nasce dalla mancanza di una fede, di uno scopo, di una meta. Non è ancora svanito l'incubo delle concezioni materialiste, che consideravano la vita dell'universo come un gioco perverso e senza peso. L'anima si sta svegliando, ma si sente ancora in preda all'incubo. Intravede solo una debole luce, come un punto in un immenso cerchio nero.”

Wassily Kandinsky, “Lo spirituale nell'arte”
L'arte è da sempre espressione dell'ineffabile, è un insieme di simboli e archetipi universali, è il principale mezzo ermeneutico per decifrare la realtà che ci circonda in chiave metafisica. Essa attinge i suoi codici dal mondo fenomenico e tangibile, ma poi li trasforma e li arricchisce, operando un processo di ridefinizione semantica che conduce a scoprire significati nuovi racchiusi dietro significanti noti.
La valenza esoterica dell'arte (nel senso greco del termine, cioè come rivelazione del significato nascosto delle cose) è nota fin dall'antichità. E spesso sacralità e arte viaggiano di pari passo.
Il legame indissolubile tra misticismo, simbolismo e immagine è largamente presente nelle filosofie gnostiche e teosofiche.
Nella Cabala ebraica, ad esempio, l'unità di Dio si manifesta nelle sue Sefirot, espresse mediante l'uso di immagini simboliche ricorrenti, spesso attinte dalla tradizione del mito. Nella loro totalità le Sefirot formano “l'albero dell'emanazione”, che cresce verso il basso dalla radice, e che, a partire dal XIV secolo, veniva raffigurato come un diagramma contenente i simboli fondamentali di ogni Sefirah (basati su immagini matematiche e organiche). In alcune interpretazioni le Sefirot venivano rappresentate come sfere concentriche, mutuando la concezione cosmologica medievale di un universo composto da dieci sfere.
Altrettanto affascinante è lo studio della gematria (o permutazione numerica), che permette di scoprire correlazioni, analogie e nessi nascosti, poiché ogni parola ha un valore numerico equivalente alla somma dei valori numerici delle lettere che la compongono, e dunque una parola può essere sostituita da un'altra con lo stesso valore numerico. L'artista compie un processo molto simile a questo, svelando così i significati occulti che si celano dietro la superficie delle cose.
D'altronde una realtà interiore che trascende la nostra percezione immediata può essere espressa solo attraverso un insieme complesso di allegorie e simboli; e il modo più immediato e pregnante per rendere fruibili tali simboli è quello di rappresentarli visivamente.
In molte culture antiche, come ad esempio nell'Egitto dei Faraoni, la realtà percepibile non era altro che il riflesso di una realtà più profonda, nascosta e invisibile, e compito precipuo dell'arte era quello di interpretare e rendere intelligibile questa realtà latente. La spiritualità permeava ogni cosa, ogni aspetto della vita, era un fatto collettivo e sociale, e scienza, arte e spiritualità non erano in antitesi, bensì intimamente connesse e interdipendenti.
Max Heindel rende molto bene questo concetto ne “La Cosmogonia dei Rosacroce”:
“La vera Religione comprende tanto la scienza che l’arte, poiché essa insegna a trascorrere una vita equilibrata, in armonia con le leggi della Natura. La vera Scienza è artistica e religiosa, nel senso più elevato della parola, perché essa c’insegna a rispettare e ad osservare le leggi che governano il nostro benessere e ci spiega perché la vita religiosa conduca alla salute ed alla bellezza fisica. La vera Arte è educativa quanto la scienza, e la sua influenza è grande, quanto quella della religione. [...] La scultura, la pittura, la musica e la letteratura, c’ispirano il sentimento della bellezza trascendente di Dio, sorgente immutabile e meta di questo meraviglioso Mondo. Nulla, all’infuori di un così universale insegnamento, potrà mai rispondere in maniera permanente ai bisogni dell’umanità. Vi fu un tempo in cui, in Grecia, la Religione, l’Arte e la Scienza erano insegnate congiuntamente nei Templi dei Misteri".
Max Heindel, “La Cosmogonia dei Rosacroce”
La contrapposizione inizia a profilarsi con l'Umanesimo e il Rinascimento, per consolidarsi definitivamente con la nascita della scienza moderna e dell'epistemologia scientifica, in particolare a causa dell'approccio razionalista propugnato da Cartesio, che influenzerà tutto il pensiero scientifico e filosofico fino al XVIII secolo.
Dunque la visione panteistica, olistica ed esoterica propria delle culture antiche è stata soppiantata, dal Rinascimento in poi, da un approccio positivista e materialista, che spesso ha ridotto l'arte a una mera rappresentazione del reale tout court.
A ciò si è aggiunta, soprattutto tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, in seguito alla nascita della psicologia moderna e della psicoanalisi freudiana, una tendenza a focalizzarsi maggiormente sulla soggettività, che ha portato a un solipsismo esagerato nel modo di concepire la spiritualità, conducendo la dimensione intrasoggettiva all'iperbole, a scapito di quella sociale.
Ma il Novecento è anche il secolo delle “sovversioni” artistiche e delle avanguardie (Futurismo, Cubismo, Scuola Metafisica, Surrealismo), della riscoperta di quel senso profondo, arcano ed esoterico che si cela dietro la realtà immanente e apparente, e che l'arte tenta di svelare e scandagliare.
E quale altro colore meglio dell'indaco può incarnare e richiamare il concetto di spiritualtà?
Nelle filosofie tradizionali indiane esso è associato al sesto Chakra (Terzo Occhio di Shiva), che rappresenta l'intuizione, l'elevazione spirituale e la capacità di “vedere oltre”.
Nella simbologia religiosa islamica l'indaco denota prestigio e nobilità.
E indaco sono detti i bambini “eletti”, gli esseri illuminati chiamati a scardinare la struttura del mondo conosciuto per condurre l'umanità a uno stadio di coscienza suprema.
Questa mostra accoglie e raccoglie la sensibilità artistica di quindici artisti italiani (tredici pittori, una poetessa e un fotografo), ognuno con caratteristiche espressive e concettuali squisitamente personali e uniche, ma tutti con un comun denominatore: il desiderio di comunicare, attraverso l'arte, il proprio universo interiore e spirituale, per giungere, come direbbe Giordano Bruno, agli “infiniti universi et mondi”.
Perchè l'artista è un demiurgo (nel senso platonico del termine) che, come affermò Arthur Rimbaud, deve farsi veggente.
“Lo spettatore che accoglie l'euritmia solo come godimento artistico non ha affatto bisogno di conoscerne le leggi, come non è necessario conoscere contrappunto o armonia o altre teorie musicali per godere la musica. Ciò è ovvio per il godimento artistico di ogni arte, poiché è insito nella natura umana che l'uomo sanamente dotato possieda a priori quelle facoltà artistiche necessarie per accogliere l'arte che, in quanto arte, agisce per forza propria.
Chi però, eseguendo l'euritmia, ha il compito di porla dinanzi al mondo, deve penetrarne l'essenza, come il musicista, il pittore e lo scultore devono penetrare nell'essenza della propria arte.”
Rudolf Steiner, prima conferenza sull'euritmia come parola visibile, 24 giugno 1924.

MARE DI PAROLE, OCEANI DI COLORI

“Ecco, tu sai che la poesia è creazione e ha un significato quanto mai vasto; tutto ciò, infatti, per cui qualcosa passa dal non essere all'essere è poesia, e quindi ogni attività creativa è poesia, e tutti i creatori sono poeti”
Platone, Simposio

“Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare”
Jorges Luis Borges


Un mare.
Mare che si muove articolando sussurri e si intreccia alle sferzate del vento di libeccio.
Mare che nella notte inghiotte e intrappola tra reti di fioche lampare i sogni sospesi nel cielo, e li rigurgita all'alba sull'orlo iridescente della battigia, accoccolati tra le insenature eburnee delle conchiglie.
Sulla sua superficie irrequieta si increspano e incespicano orde di desideri che si accartocciano e si avviluppano tra loro, precipitano affondando tra gli abissi, per poi risalire coperti di salsedine e fradici di azzurro.
Le voci mute dei pesci guardano i pionieri temerari che si avventurano nell'imprevedibile languore del suo mistero come fossero schivi schiavi di romitaggi paradossali senza fine.
Le parole sono come sassi piatti che spezzano la quiete immobile, disegnando anelli concentrici dentro i quali si insinuano gli sguardi obliqui e audaci di segreti che sgranano tra le pupille lapilli di bellezza suadente e silente.
Una mano raccoglie le conchiglie sparse sulla sabbia, le ausculta, le strofina ripulendole dai detriti, le nutre di sole e le ripone dentro uno scrigno sommerso. Lì il tempo le consuma, ne divora l'involucro calcareo, fino a lasciarne intravvedere la loro anima nascosta. Quando la mano apre lo scrigno si sprigionano spirali di colori cangianti e fiumi di parole incandescenti.
Fiumi che portano al mare. Spirali che si arrampicano fino al cielo.


VOYELLES

A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali!
Un giorno dirò le vostre segrete origini:
A, nero vello sul corpo di mosche splendenti
Che ronzano intorno a crudeli fetori,

Golfi d'ombra; E, candori di vapori e tende,
Lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi d'umbelle;
I, porpora, rigurgito di sangue, labbra belle
Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti;

U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari,
Pace di pascoli d'animali, pace di rughe
Che l'alchimia imprime sulle ampie fronti studiose;

O, suprema Tromba piena di strani stridori,
Silenzi attraversati da Angeli e Mondi:
O, l'Omega, raggio viola dei suoi Occhi!

Arthur Rimbaud



“Mare di parole” è l'ultimo progetto artistico di Ciro Palumbo. Un progetto che mescola risonanze letterarie e metafisica pittorica, creando interessanti e suggestive commistioni concettuali, stilistiche e tecniche.
Le parole, nelle opere di Palumbo, diventano supporto su cui distendere e dipanare la fantasia. Un mare placido e accogliente di segni impalpabili, ricolmi di significati e ammiccamenti. Palumbo prende le parole e le ri-racconta, le ri-combina, rifacendosi a una lunga tradizione artistica che vede nel Novecento il secolo della “poesia visiva”, in cui le parole diventano anche immagini, slittando verso nuovi orizzonti semantici, e vengono arricchite e impreziosite attraverso la pittura, la cinematografia e le arti visive.
Una tradizione che vede il proprio geniale antesignano in Arthur Rimbaud, nella sua poesia veggente, struggente e ruggente, nelle sue vocali che acquistano valenze emozionali e cromatiche. Perchè la letteratura non interessa solo il senso della vista, ma solletica e risveglia anche gli altri sensi.
Il legame tra immagine e parola è atavico e affonda le proprie radici nella culla della civiltà: i geroglifici egizi sono un esempio di come, in molte società antiche, immagine e scrittura fossero intrinsecamente connesse. Il nostro alfabeto occidentale moderno, invece, contiene grafismi che non hanno nessun nesso con le immagini mentali, e il segno è una pura convenzione concettuale e autoreferenziale, che non rimanda a nessun codice visivo noto. Un astrattismo estremo, dunque, che ha creato, nella nostra cultura, un divario enorme tra linguaggio e rappresentazione.
Palumbo prosegue un cammino intrapreso dai futuristi e ricalcato poi dai surrealisti, dai dadaisti e dalla pop art. Riprende l'affascinante tradizione del calligramma, un genere di poesia che risale all'antichità classica (il tecnopegnio di Simmia di Rodi, IV sec. a.C), che si sviluppa nei secoli XV e XVI, con la poesia figurativa umanista, fino ad essere ripreso dalle avanguardie artistiche del novecento, e che trova in G. Apollinaire uno dei suoi più celebri esponenti.
Questo genere letterario coniuga esigenze dialogiche e risonanze figurative, assemblando i significanti in modo da creare architetture grafiche bizzare e bizzose, dando vita a un “versilibrisme” affascinante e paradossale.
Nelle tele di Palumbo non ci sono cannoni che sputano lettere, come in G. Severini, nè vortici di parole, come in F. Depero; la sua poetica si differenzia dal movimento futurista, sia dal punto di vista concettuale, sia dal punto di vista formale, perlustrando diverse sfaccettature del binomio pittura-letteratura.


“Cara immaginazione, quello che più amo in te è che non perdoni.
La sola parola libertà è tutto ciò che ancora mi esalta. La credo atta ad alimentare, indefinitamente, l'antico fanatismo umano. Risponde senza dubbio alla mia sola aspirazione legittima. Tra le tante disgrazie di cui siamo eredi, bisogna riconoscere che ci è lasciata la massima libertà dello spirito. Sta a noi non farne cattivo uso. Ridurre l'immaginazione in schiavitù, fosse anche a costo di ciò che viene sommariamente chiamato felicità, è sottrarsi a quel tanto di giustizia suprema che possiamo trovare in fondo a noi stessi.”

André Breton, Manifesto del Surrealismo


Nelle opere dell'artista torinese la letteratura si veste di un senso mistico e onirico, è un ordito che intesse ancestrali memorie, miti e leggende, è una chiave per aprire le porte socchiuse dell'inconscio e del Sogno. La parola non è esplosione fragorosa, gioco dinamico e concitato, ma diventa simbolo lieve che si affaccia sulla realtà interiore piuttosto che sulla realtà esteriore, è forza centripeta anziché centrifuga, e rappresenta universi metafisici e surreali, che affondano le proprie radici nell'intimità dell'individuo, nel suo mondo segreto e nascosto, in bilico tra inconscio soggettivo e inconscio collettivo.
Letteratura e pittura si intersecano e attingono l'una dall'altra, giocano a rincorrersi, a specchiarsi reciprocamente, a scambiarsi stilemi e paradigmi, e l'intreccio che ne sortisce è un'alchimia suggestiva, evanescente, delicata.
La parola possiede anche una sua estetica visiva e formale, così come l'immagine racchiude in sé sprazzi di poesia e lirismo.


ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.

Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.
Eugenio Montale, Ossi di seppia, Meriggi e ombre, Casa sul mare

Il connubio crea equilibrismi arditi, logiche dialogiche, contaminazioni che fondando un linguaggio nuovo, che non è solo sintesi degli elementi, ma qualcosa di più. Il potenziale espressivo non aumenta solo in termini quantitativi, ma anche, e soprattutto, sotto un profilo qualitativo.
L'impiego di collage di pagine di libri sulla tela crea un effetto visivo di stratificazione e sovrapposizione di pensieri, sogni, storie e immagini, che, concettualmente, rimanda a una radice originaria che restituisce senso al presente. E' un modo di raccontare, attraverso il potere evocativo della pittura, ciò che a volte sfugge all'affabulazione pura, di ampliarne l'effetto catartico e proiettivo e di incrementarne la forza narrativa.
Un mare di parole dipinte dove fluttuano i sogni, zattere salvifiche che dispensano riparo dalle tempeste; un mare dove si recupera il filo rosso dell'esistenza, dove lo spettatore può voltarsi e guardare da dove viene e al contempo, proprio in virtù di ciò, può immergersi negli abissi del proprio essere, nel proprio tumultuoso e magmatico oceano, intraprendendo un viaggio infinito e incessante, un'odissea epica, misteriosa e incalzante.
E se si riesce a oltrepassare Scilla e Cariddi significa che l'isola è vicina, che il tempo può essere ingannato, che il canto delle sirene non ha mistificato i desideri e offuscato la rotta.

“[...]
Sul mare salato
si posa la luce e sui campi
d'ogni parte fioriti, e la bella
rugiada discende e le rose
fioriscono e i cerfogli
delicati
e il meliloto spruzzato
di bianco.
[...]
Saffo, poesie d'amore, 96. V.


“Più di quanto sia lecito,
più di quanto sia possibile,
come
un delirio di poeta incombe nel sogno,
enorme si fece il groppo del cuore,
enorme l'amore,
enorme l'odio.”
[...]
Vladimir Vladimirovic Majakovskij


“Chi può capire qualcosa della dolcezza se non ha mai chinato la propria vita, tutta quanta, sulla prima riga della prima pagina di un libro?”
Alessandro Baricco, Castelli di Rabbia

“I nostri sogni e desideri cambiano il mondo”
Karl Popper

“Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”
Seneca


La notte impone a noi la sua fatica
magica. Disfare l'universo,
le ramificazioni senza fine
di effetti e di cause ch si perdono
in quell'abisso senza fondo, il tempo.
La notte vuole che stanotte oblii
il tuo nome, i tuoi avi e il tuo sangue,
ogni parola umana e ogni lacrima,
ciò che potè insegnarti la tua veglia,
l'illusorio punto dei geometri,
la linea, il piano, il cubo, la piramide,
il cilindro, la sfera, il mare, le onde,
la guancia sul cuscino, la freschezza
del lenzuolo nuovo...
Gli imperi, i Cesari e Shakespeare
e, ancora più difficile, ciò che ami.
Curiosamente, una pastiglia può
svanire il cosmo e costruire il caos.

Jorges Luis Borges, Il sogno

mercoledì 25 febbraio 2009

“LE CINQUE ROSE DI JENNIFER”

“Le cinque rose di Jennifer”, scritto da Annibale Ruccello, precocemente scomparso all’età di trent’anni, va in scena al Teatro Gobetti di Torino dal 24 febbraio al 1 marzo.
La regia è di Arturo Cirillo, anche interprete dell’opera insieme a Monica Piseddu.
Atto unico estremamente denso di sfaccettature, ombre, pathos e contrasti.
Il piano del reale scivola sui binari di un’improbabilità a tratti illusoria e penosa, a tratti riottosa e cupa.
In una stanza esageratamente posticcia, brulicante di fiori, vestiti e oggetti artefatti e pomposi, canzoni melense di Patty Pravo e Mina, si consuma il dramma di un travestito napoletano, avviluppato tra le ragnatele di una menzogna dolce-amara che accarezza e al contempo schiaffeggia la sua indefinita e nebulosa identità.
L’ambiguità aleggia dall’inizio alla fine dello spettacolo, mescolata sapientemente a una sottile ironia che stempera e attenua il dramma di un’inesorabile solitudine.
L’interpretazione che Cirillo dà dell’opera, accentua da un lato l’aspetto grottesco, e dall’altro l’ambivalenza che avvolge l’intera vicenda.
Jennifer attende inutilmente e disperatamente la telefonata di un amante, che mai giungerà, e, per beffa della sorte, il suo telefono squilla in continuazione, a causa di indesiderate “interferenze”. Il fantomatico amante, nella fantasia di Jennifer, è sempre in procinto di arrivare, e lei deve essere sempre in ordine ed “elegante”, pronta per accoglierlo. Così Jennifer, che ricorda molto la Prinçesa di Fabrizio De Andrè, inganna se stessa costruendo un mondo parallelo, fittizio e illusorio, che la distragga dalla crudezza di una realtà dura e dolorosa, quella della solitudine, appunto. In alcuni momenti l’attesa diventa un gioco, una tensione ammiccante e stuzzicante, in altri momenti, invece, diviene un supplizio snervante.
L’unico vero incontro di Jennifer è con il suo “doppio”: Anna, un altro transessuale. E qui il gioco dell’ambiguità si fa ancora più intrigante ed enigmatico, in virtù della scelta registica di far interpretare Anna a un’attrice e grazie anche a uno scambio di vestito, quasi a voler accentuare l’ambivalenza dell’identità sessuale.
E il tutto viene condito da sordidi delitti compiuti da un misterioso serial killer che, dopo aver massacrato le sue vittime (tutti travestiti!), lascia sui loro corpi, come macabra “firma”, cinque rose rosse.
Cirillo e Piseddu si dimostrano, in questo ruvido e sarcastico dramma, attori di estrema finezza interpretativa, grande espressività e notevole comunicatività.
La regia è accattivante e interessante, e la scenografia riesce a trasmettere alla perfezione quell’atmosfera in bilico tra il losco, il patetico e l’equivoco, che l’autore voleva esprimere.

venerdì 20 febbraio 2009

“MENO MALE” ALLE DONNE!


ARTE E IMPEGNO CIVILE SI INCONTRANO
AL TEATRO VITTORIA


Mercoledì 4 marzo 2009, alle ore 20.30, presso il Teatro Vittoria di Torino (Via Gramsci, 4), il Telefono Rosa di Torino, in collaborazione con l’atelier d’arte “Bottega Indaco” (http://www.bottegaindaco.blogspot.com/), presenterà una serata artistica di sensibilizzazione contro la violenza sulle donne, organizzata grazie al sostegno della Fondazione CRT e di Farmacuore, e patrocinata dalla Regione Piemonte, dalla Provincia di Torino e dalla Città di Torino.
Telefono Rosa, attivo a Torino da 16 anni, questa volta ha scelto una chiave nuova e originale per affrontare l’ostico e scabroso tema della violenza sulle donne: l’arte.
L’evento prevede una mostra di fotografie e quadri realizzati dagli artisti di “Bottega Indaco” (Ciro Palumbo, Akira Zakamoto, Claudia Giraudo, Laura Giai Baudissard, Cristina Gualmini e Angela Vinci), una performance teatrale della “Bottega dell’attore in viola” (diretta da Marzia Scarteddu), e un concerto di Antonello Aloise (pianoforte) e Linda Murgia (violoncello).
L’idea di organizzare questa serata “multiartistica” nasce dalle riflessioni emerse nel forum che il Telefono Rosa ha creato sul proprio sito in occasione della Giornata Mondiale contro la Violenza sulle Donne (25 novembre 2008).
Da questa iniziativa sono nati interessanti spunti, utilizzati ed elaborati dagli artisti per creare le proprie opere e performance.
Attraverso uno spettacolo che mette in gioco diverse forme ed espressioni artistiche, si cerca, dunque, di denunciare e sottolineare questa tematica purtroppo ancora estremamente attuale, ma il taglio che si intende dare alla serata è propositivo e costruttivo.
Il comune denominatore di tutto lo spettacolo è il desiderio di mettere in luce gli aspetti positivi della femminilità, e non solo le ombre cupe e dolorose della violenza (psicologica e fisica) subita, dando risalto alla forza e alla “Bellezza” che ogni donna possiede, e che le permette di generare, rigenerare e rigenerarsi, per non essere mai sopraffatta e annientata dalla sofferenza e dall’aberrazione.
E auspichiamo un’evoluzione culturale, civile e sociale che porti davvero meno male.
Meno male che le donne racchiudono nella propria anima tanta Bellezza. Una Bellezza ontologica, sostanziale, profonda, tenace e potente, che permette alle donne di “farcela”, di risollevarsi e andare avanti, nonostante tutto.
E meno male che esiste l’arte, che perlustra e svela questa Bellezza, permettendoci di trasformare, creare e ricreare la realtà che ci circonda.

mercoledì 28 gennaio 2009

AKIRA ZAKAMOTO ESPONE ALLO SPAZIO 10 DI IVREA BAMBINI INDACO, ANTESIGNANI DEL CAMBIAMENTO UNIVERSALE


Sabato 13 dicembre 2008, presso il Centro Culturale Multimediale “La Serra” di Ivrea, è stata inaugurata la mostra personale di Akira Zakamoto “Bambini Indaco”, in collaborazione con l’associazione culturale “Spazio10”. In esposizione, fino al 6 gennaio 2009, undici quadri (oli su tela) del pittore torinese.

Durante la serata è stato presentato, da Pietro Abbondanza e Cristina Garavaglia, fondatori della casa editrice “Stazione Celeste”, il libro di Celia Fenn “L’avventura indaco-cristallo: bambini e adulti indaco e cristallo, i pionieri della nuova era”.

Spazio 10 (www.spazio10.it) è una realtà attiva sul territorio di Ivrea da circa cinque anni. Nasce nel giugno 2004 con l'intento di costituire uno spazio artistico polivalente dedicato all'arte contemporanea. I suoi associati, intendono incentivare la ricerca artistica attraverso l'ideazione di progetti che esulino dal circuito commerciale dell'arte istituzionale, per creare invece opportunità di sviluppo di canali alternativi, promuovendo e sostenendo giovani artisti in cerca di occasioni per potersi esprimere e poter comunicare nuove idee.

Stazione Celeste” (http://www.stazioneceleste.it/) è una casa editrice e insieme uno spazio di incontro che si occupa di tematiche legate alla spiritualità. I libri editi da “Stazione Celeste” sono delle finestre affacciate su mondi sorprendenti e inesplorati; sono viaggi che possono condurre chi li legge a scoprire nuove strade, nuovi modi di vivere, più consapevoli e profondi, che trascendono la mera apparenza e la realtà fenomenica in cui siamo immersi.

In particolare, il libro di Celia Fenn affronta il tema dei bambini indaco e cristallo. Bambini che sono messaggeri di cambiamento, antesignani di una “rivoluzione” spirituale e culturale imminente, presente “in nuce” nel genere umano, ma che ancora non ha trovato gli strumenti e i tempi per realizzarsi appieno. Questi fanciulli “magici” giungono sulla terra come “angeli”, per innescare un processo di consapevolezza che la razza umana non potrà ignorare, e che, inevitabilmente, produrrà un cambiamento “apocalittico” nelle nostre società e nelle nostre culture.

Questo illuminante libro viene “illustrato” da questa mostra grazie ai dipinti dell'artista “Akira Zakamoto”, a cui il tema dei bambini, concepiti come esseri superiori e forieri di una teleologia profonda dell'esistenza, è particolarmente caro e costituisce il fulcro della sua ricerca concettuale e artistica.

Nei quadri di Akira Zakamoto i bambini rappresentano una connessione mistica tra universi tangibili e mondi intrapsichici, perché essi sono in grado di dare un significato diverso ai significanti, ai segni che si presentano ogni giorno sotto i nostri occhi, e che noi non sempre riusciamo a decodificare.

In queste opere assistiamo alla rappresentazione di una poetica che incarna “un'escatologia esoterica” densa di valenze spirituali oltre che artistiche.

E così muta lo sguardo, e muta la prospettiva consueta e desueta, attraverso un gioco di metamorfosi semantiche che lo stesso Zakamoto descrive nella presentazione di questa mostra, e che preannuncia una trasformazione non solo di stilemi linguistici, ma di significati e di concezioni, aprendo la via a strade nuove e imprevedibili dove l'essere umano può ritrovarsi abbandonando sé stesso e le proprie antiche e fallaci credenze. Ironica iperbole, magnifica e paradossale.


“EUFASIA” ARTE COME TRADE D'UNION TRA EUROPA E ASIA



L'11 gennaio 2009, presso l'elegante ed esclusivo “Port Palace Hotel” di Montecarlo, è stata inaugurata una mostra d'arte originale, raffinata e “multietnica”.

Elisabetta e Paola Fantaccini, anime dell'azienda di comunicazione “Eufasia s.a.r.l” e promotrici dell'evento, hanno dato vita a una kermesse sorprendente ed esplosiva, mirabilmente curata fin nei minimi dettagli. L'allestimento impeccabile, l'attenzione solerte e minuziosa per i particolari e la doviziosa “regia” di tutte le performance artistiche denotano un impianto organizzativo di gran classe e pregio. I bellissimi locali del “Palace Hotel”, sfarzosi ma mai barocchi, con un magnifico e iridescente mare a fare da cornice al tutto, si sono rivelati una location ideale per valorizzare al meglio questo evento.

La serata è stata densa di sorprese e spettacoli, spaziando dalla musica alla cucina, dal Tai Qi alla scultura, dalla pittura alla fotografia. L'esposizione potrà essere visitata fino al 25 gennaio.

Tantissimi gli artisti chiamati ad arricchire, animare e movimentare questo singolare vernissage: Daphnè Du Barry (scultrice), Fabiana D'Amico (scultrice), Lanfranco Lanari (pittore), Akira Zakamoto (pittore), Rafael Pacheco (pittore), Ivana Boris (fotografa), Claudia Albuquerque (fotografa), Yukako Custo (musicista), Yang Er Yue (Tai Qi), Anthony Alberti (bodypainter), solo per citarne alcuni.

Quale modo migliore per comunicare se non l'arte nella sua magnifica e inesauribile versatilità e poliedricità di significati? Questa l'idea che ha spinto le sorelle Fantaccini a organizzare questo ambizioso evento, peraltro perfettamente riuscito.

Eufasia”, secondo l'etimologia greca del termine, e non a caso, significa “buona comunicazione”. Infatti l'arte rappresenta e incarna sicuramente una modalità comunicativa straordinaria, piena di simboli, suggestioni, contaminazioni e valenze.

L'arte ha anche una funzione unificatrice oltre che comunicativa. Essa è capace di sottolineare le peculiarità e le differenze, ma anche di trasformarsi in terreno comune, sensibilità universale, materia plasmabile che identifica e connota l'anima pur distinguendola come entità magica, unica e irripetibile.

L'arte è spesso in grado di superare le barriere linguistiche, perché non ha bisogno di parole e di codici verbali condivisi. Con l'arte si possono superare i limiti spazio-temporali e culturali, dialogando direttamente con la parte più nascosta e profonda dell'anima umana. Un colore, un suono, un movimento, arrivano a sfiorare direttamente le nostre corde emotive, facendole vibrare e sussultare. Senza bisogno di parole.

Questa è “buona comunicazione”.


ART METER DOVE L'ARTE SI LIBERA DAI VINCOLI



Art-Meter (http://www.art-meter.it/) è una galleria d'arte on-line che vede la luce nel marzo 2008, grazie a Ilaria Fossi e a suo marito Taka, che si sono ispirati a un'idea della società nipponica “Kayac Inc” (www.art-meter.com). E' uno spazio virtuale (ma anche reale!) in cui gli artisti possono vendere liberamente le proprie opere, e chiunque può acquistarle.

Ilaria Fossi e Taka detengono la concessione del marchio per tutta l'Europa, e uno dei loro prossimi obiettivi è quello di esportare Art-Meter anche all'estero.

Questa iniziativa, unica in Italia, in pochissimo tempo ha avuto un riscontro molto positivo, sia presso il pubblico, sia presso gli artisti. In pochi mesi, infatti, le vendite dei quadri hanno avuto un incremento esponenziale. Basti pensare che da marzo a ottobre sono stati venduti circa 50 quadri, e da ottobre a dicembre circa 160. Un risultato di tutto riguardo, emblematico della crescita e del successo che il progetto sta ottenendo.

La filosofia che sta alla base di questa iniziativa parte dalla considerazione che l'arte debba essere un bene non vincolato da logiche di mercato elitarie. L'arte è un prezioso patrimonio di cui tutti dovrebbero usufruire e godere; è una ricchezza, sia per chi la produce, sia per chi ne fruisce. Una concezione, quindi, non “oligarchica” e settaria, ma “democratica”. Parola d'ordine, dunque: libertà.

Libertà, per l'artista, di poter vendere i propri lavori in modo equo e trasparente; libertà, per il pubblico, di poter acquistare le opere a prezzi accessibili, stabiliti secondo criteri chiari e inequivocabili.

Art-Meter non giudica nessuno e non pone censure, dando a chiunque la possibilità di rendersi visibile e di esprimersi attraverso la propria produzione. Qui sono racchiuse la pregevole peculiarità e la carta vincente di questo progetto. Esiste, dunque, una volontà precisa di connotare la creatività in modo diverso e alternativo, eludendo i canali canonici dell'arte istituzionale e un po' “snob”, che si erge su un piedistallo e promulga arroganza e saccenza.

Con Art-Meter, invece, l'arte si evolve, vola libera, senza costrizioni formali e senza quelle innumerevoli “conditio sine qua non” che fanno dell'arte “ortodossa” un territorio immobile dove la regola regia è un'ottusa e sterile autoreferenzialità, sorretta da onanismi rocamboleschi e grotteschi, e fiumi di autocompiacenza narcisistica.

Un'iniziativa, quella di Ilaria Fossi e Taka, estremamente rivoluzionaria, che apre la strada a un mutamento importante nel modo di concepire la creatività.

Soprattutto in Italia, l'arte è ancora prerogativa di pochi ed è ostaggio di logiche retrive, obnubilate e sterili.

In Italia chi fa arte (il cosiddetto artista, o sedicente tale), o “se lo può permettere”, e si trastulla con la produzione artistica né più, né meno, come potrebbe fare con un giornaletto pornografico o con una partita di squash, oppure si affida alle “briglie d'oro” di qualche illuminato gallerista-mecenate, ma, per quanto dorate, pur sempre di catene e di gabbie si tratta. Senza dimenticare che trovare qualcuno, nel nostro “belpaese”, che non sia legato a un'idea dell'arte “classica” e “manieristica”, che deve obbligatoriamente rispondere a certi schemi estetici e formali (anche nell'ambito della “sovversione”!), è difficile se non impossibile.

Art-Meter invece livella tutti. Ma senza negare dignità e valore, anzi, elargendo a ogni artista la possibilità di esprimere se stesso senza condizionamenti, senza temere i giudizi altrui, e senza il vessillo assillante dell'inadeguatezza. E su Art-Meter, particolare non trascurabile, l'artista può vendere le proprie opere. Perché l'idea romantica e decisamente aberrante dell'arte che esula da qualunque “sporca” compromissione con il vile denaro, è ormai anacronistica e da rifuggire come la peste. Cerchiamo, quindi, di restituire all'arte e all'artista la sua dignità e il suo valore in toto, anche in quanto lavoro grazie al quale potersi garantire una sussistenza, appurato il fatto che di sola aria e idilliaci vaniloqui non si vive.

Un'idea all'avanguardia, dunque, in questo panorama impolverato e austero che ha il sapore più del cimelio che della vera creatività.

Finalmente qualcosa di diverso, che spezza la logica consueta. Stiamo a vedere.


giovedì 22 gennaio 2009

DON CHISCIOTTE, L'ARTE DELL'IMITAZIONE

Al Teatro Nuovo di Torino è in scena, dal 20 al 25 gennaio, “Don Chisciotte”, diretto e interpretato da Franco Branciaroli e prodotto dal Teatro de Gli Incamminati.
Le luci, bellissime e cangianti, sono di Gigi Saccomandi; la curiosa scenografia, che richiama un ambiente da “bar esclusivo di alto rango”, è di Margherita Palle, e i costumi sobri ed eleganti sono di Caterina Lucchiari.
In questo spettacolo dissacrante e ironico, possiamo ammirare, a 360 gradi, l’estrema versatilità di Franco Branciaroli, grande mattatore camaleontico e istrionico.
In un esilarante ed esplosivo atto unico, Branciaroli si fa abile e raffinato emulatore di due mastodontici “mostri sacri” del teatro italiano e internazionale: Vittorio Gassman e Carmelo Bene, rivisitando il “Don Chisciotte” di Miguel de Cervantes in chiave originale e giocosa.
Come il protagonista del romanzo, appassionato di epopee cavalleresche, si trasforma nel celebre cavaliere errante Don Chisciotte della Mancia, così Branciaroli si trasforma in questi due idoli del palcoscenico, tessendo un mirabile “elogio dell’arte dell’imitazione”.
In bilico tra solennità e facezia, egli rimbalza con sbalorditiva disinvoltura tra un Don Chisciotte-Gassman e un Sancho Panza- Bene, calcando la scena da solo per settantacinque minuti, senza mai un attimo di esitazione o di indecisione, riuscendo a rapire e a divertire la platea per tutta la durata dello spettacolo, e mantenendo sempre un ritmo incalzante e vivace.
Con sarcasmo a tratti provocatorio e canzonatorio, a tratti sottile e tagliente, Branciaroli imita questi due grandi attori destreggiandosi rocambolescamente tra Dante, Beckett e i miti greci, servendosi del capolavoro di Cervantes come pretesto narrativo per creare un’apologia giullaresca e paradossale sul senso del teatro e della letteratura.
Dunque dove sta il limite tra realtà e finzione, chi lo decide e perché? E qual è la funzione dell’imitazione intesa come “tragicommedia” catartica contenente mille imprevedibili matrioske?
L’attore, in fin dei conti, è una persona, nel senso latino del termine, dunque una maschera. Cangiante, potente, poliedrica, immersa in un magmatico gioco di specchi in cui si perde e si ritrova. Sia che stia sulla scena di un teatro, sia che stia sulla scena di un romanzo.
In un finale imprevisto e affascinante Branciaroli ci dimostra che tutto si può modificare, tutto si può ribaltare. E si può anche rinnegare l’inchiostro che scrive il destino di un personaggio.

domenica 18 gennaio 2009

CIRO PALUMBO E ALFIO PRESOTTO




LO SCRIGNO DELLA BELLEZZA SPALANCATO SUGLI UNIVERSI RECONDITI DELLA SPIRITUALITA'


La pittura di Ciro Palumbo e Alfio Presotto, densa di simboli e archetipi, rappresenta l'ideale estetico e spirituale del Sogno.
Il Sogno è qualcosa di ben diverso dai sogni, perché ha un cuore stratificato in cui si intessono e si mescolano valenze individuali e valenze collettive. Esso è una matrioska poliedrica che si eleva dal piano immanente a quello trascendente, percorrendo la filogenesi dell'anima umana dagli albori della civiltà al tempo presente. E' una specie di reperto fossile dello spirito che raccoglie, lungo il proprio cammino, frammenti di esperienze, emozioni, desideri e aspirazioni personali e sociali, per divenire “un'antonomasia” che racchiude le radici spirituali e culturali dell'umanità. Un cuore ancestrale e pulsante, una pozione alchemica vibrante, che continuamente si addobba di nuovi colori, nuove sfumature e nuove forme. Un patrimonio di tutti e di ognuno, squisitamente intimo e al contempo universale. Tutto ciò può sembrare un parossismo, eppure l'espressione artistica di questi due pittori ci dimostra che l'antinomia è solo apparente.
Palumbo e Presotto, con la loro pittura, aprono questo sfavillante scrigno e vi rovistano dentro. E come dei “Prometei contemporanei”, “rubano” questo magnifico e magmatico “fuoco” per donarlo agli uomini. La chiave magica che spalanca questa seducente cassaforte blindata è la Bellezza.
I due pittori, distribuiti in esclusiva da “Falpapromozionearte”, riescono a creare un rapporto dialogico con la Bellezza, vestendola di significati che superano la mera piacevolezza sensoriale per spingersi in territori ben più complessi, arcani e intriganti, dove l'interlocutore privilegiato diviene lo spirito. Palumbo e Presotto parlano all'uomo intriso di realtà fenomenica, ma anche e soprattutto all'uomo che ha impresse dentro di sé memorie lontane, che affondano le proprie origini nella notte dei tempi. Le opere di questi due artisti comunicano su due livelli: quello immediato e istintivo, con l'impiego di canoni estetici condivisi e versatili giochi cromatici, e quello inconscio e latente, con l'uso di simbolismi che solo l'anima può decifrare.
La loro “Metafisica”, rompendo le convenzioni, scandaglia un mondo sublime e sotterraneo dove tutto è ribaltato e reinterpretato, e ogni cosa diviene possibile. Solo spezzando gli argini e annullando i limiti imposti si può innalzare il proprio essere.
La Bellezza, dunque, non è autoreferenziale, non è solo virtuosismo che lusinga i sensi e accarezza lo sguardo, bensì è simbolo di valori spirituali elevati e universali. La Bellezza di Palumbo e Presotto ha un rapporto sottile e complesso con la temporalità, perché essa non è mai anacronistica ma neppure contestualizzante: è presente, pur attingendo da ideali estetici, culturali e simbolici del passato, ma il suo collocarsi nel tempo presente in virtù di un'incarnazione precisa non la denota e non la identifica con una particolare componente del mondo reale. E qui sta l'essenza epistemologica ed ermeneutica della “surrealtà” di questi pittori.
La figura femminile, spesso raffigurata nelle opere di Presotto, non rappresenta una donna, ma la donna. E l'analisi va ancora oltre: la donna è un pretesto, uno stratagemma per scrutare la Bellezza, che a sua volta è una chiave d'accesso per addentrarsi nel territorio meraviglioso e sfolgorante della dimensione spirituale.
Così gli eroi, gli dei e le isole di Palumbo: sono, appunto, archetipi universali e simboli di Bellezza che permettono, attraverso la decodifica sensoriale e istintiva di elementi noti, uno spostamento semantico ed emozionale che conduce lo spettatore a scoperchiare il “Vaso di Pandora”, che in questo caso non contiene tutti i mali, ma racchiude i segreti più affascinanti e ammalianti dell'animo umano. Lo “strumento” che mette in atto questo stupefacente processo è l'Inconscio.
Gli artisti hanno l'arduo compito, peraltro perfettamente assolto da Palumbo e Presotto, di trovare “gli appigli cognitivi” adatti a innescare questo fantasmagorico e sorprendente viaggio, generando quel sortilegio unico e irripetibile che solo l'Arte può regalarci.