sabato 20 dicembre 2008

PROFONDITA’ 45 MICHELANGELO AL LAVORO


La commistione temeraria e apparentemente paradossale tra arte, tecnologia e industria è la caratteristica peculiare di questo progetto, ideato e curato da Ruggero Maggi e realizzato grazie alla collaborazione della ditta “TCG Ghelco” di Settimo Torinese (che ha sostenuto interamente i costi dell’iniziativa), e alla supervisione generale di Luigi Dorella.

Profondità 45 Michelangelo al lavoro” si avvale della partecipazione di una sessantina di artisti che hanno accettato questa singolare “sfida”: elaborare un’idea, essere gli artefici di un progetto creativo attuato, concretamente e tecnicamente, dal sistema di aerografia digitale “Michelangelo”, impiegando particolari materiali industriali usati solitamente per scopi vari (arredamento, edilizia etc). Questi materiali sono stati successivamente assemblati in modo volutamente caotico e casuale, al fine di sortire un effetto imprevisto e imprevedibile, un sussulto inatteso di stupore grazie al quale lo spettatore può accedere alle sfaccettature più nascoste e recondite del messaggio che l’opera intende veicolare. La profondità emotiva e la pregnanza comunicativa di questa mostra sono racchiuse proprio nella sottile alchimia tra bellezza, tensione, sovversione ed emozione, in quel quid che scuote l’anima, che rende armoniose le dicotomie attraverso danze di antitesi e parossismi, che scandaglia l’imperscrutabile suscitando sensazioni enigmatiche e ancestrali, dense di significati simbolici immediati ed “epidermici”.

Non c’è esegesi che tenga: alla fine tutto viene ricondotto alla soggettività, e in virtù delle percezioni e interpretazioni individuali ogni opera acquista un senso intelligibile. Questa è la vera epistemologia dell’arte, perché paradigmi e postulati assoluti non ne esistono. L’artista si fa maieuta, aedo, rabdomante, affabulatore ardito che, utilizzando e “umanizzando” il mezzo tecnico, riempie i significanti di significati, e va alla ricerca incessante di segreti sepolti sotto la pelle, custoditi in quel territorio arcano e mistico che è la nostra essenza più profonda, seducente e magmatica.

Il caos indistinto diviene un’ammaliante fucina da cui attingere per creare, manipolare e dare forma a ciò che per natura è indistinto e indifferenziato.

F. Nietzsche affermava che: “bisogna avere ancora del caos dentro di sé per partorire una stella danzante”.

Indubbia l’originalità di questo interessante progetto, pieno di spunti concettuali, artistici e tecnici, che si svilupperà in una mostra itinerante che parte da Torino (Palazzo Atena, 28/11-12/12), per proseguire la propria “odissea” attraverso varie città italiane ed europee.

Il ricavato delle vendite delle opere d’arte verrà devoluto alla LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids), alla Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro e alla O.N.A.O.M.A.C (associazione che sostiene e assiste gli orfani dei carabinieri).


Contatti:


Curatore del progetto: Ruggero Maggi - camera312@fastwebnet.it


Coordinatore e responsabile TCG Ghelco: Luigi Dorella – luigi.dorella@ghelco.it

TCG Ghelco – Via Santa Cristina 16/C – Telefono: 011.8950944 - Settimo Torinese (To)

www.tcgcom.net



sabato 13 dicembre 2008

Un eterno segno grafico serpeggiante che corteggia una spirale

In una danza obliqua
ingorda di sospensioni
galleggia nell'aria
la corda impiastricciata di miele e spine

Posticcio e inutile
il grillo parlante
che si accucciatra le circonvoluzioni magmatiche del cervello

Trova respiro la temerarietà
in bilico tra l'umano e il divino
quando si scivola al contrario
precipitando verso l'alto
con lo sguardo che circuisce le viscere della terra

Incipiente l'esperienza luciferina
che scolpisce antitesi tra le palpebre socchiuse
della vanità

Tutto ciò che non si può dire e non si può fare
è voluttà appetitosa
che non sa essere pavida

Negletta è l'assennatezza noiosa
foriera di mendaci lusinghe
perchè pulsando
il sangue si rovescia e distilla gocce di follia

venerdì 12 dicembre 2008

LA DANZA DELL'INFERNO


Al Teatro Alfieri di Torino, dal 9 al 14 dicembre, è di scena “Inferno”, rocambolesco spettacolo di danza ispirato ai canti danteschi della “Divina Commedia”.

Dall'autore di “Nogravity” - Emilio Pellisari - un'affascinante reinterpretazione del viaggio di Dante e Virgilio attraverso cerchi, bolge e gironi infernali, dove predomina il linguaggio del corpo, dell'acrobazia aerea e della coreografia.

Emilio Pellissari, già ideatore di originali performance, profondo conoscitore del teatro fantastico rinascimentale e di incredibili stratagemmi meccanici, questa volta porta in scena uno spettacolo temerario e ardito, denso di sorprese ed effetti sbalorditivi.

Confrontarsi con l'imponente e mastodontica eredità della “Divina Commedia” già è un'impresa ardua, ma renderla attuale, esaltante e coinvolgente senza sminuirla e banalizzarla, è davvero encomiabile.

Lo spettacolo è un vero capolavoro, e niente è lasciato al caso: dalle eccentriche e poliedriche musiche etno-tech e classiche di Giuliano Lombardo e Oscar Monelli, alle luci sapienti che evocano atmosfere oniriche e inquietanti, ai costumi, alle fantasmagoriche coreografie di Noemi Wolfsdorf. Le abilità tecniche ed espressive dei danzatori sono a dir poco eccezionali: mai una sbavatura, mai un movimento incerto, barcollante, impreciso o spurio. E la loro sintonia è ineccepibile, sia nei movimenti dinamici, sia nei passaggi statici. A elargire un ulteriore tocco di prestigio e lustro: la voce recitante di Vittorio Gassman, che accompagna le meravigliose gesta dei ballerini declamando alcuni versi tratti dai più celebri canti dell'”Inferno” dantesco.

Lo spettatore viene inghiottito, fin dall'inizio, da atmosfere oniriche, surreali, cupe, ambivalenti e dense di suggestioni sensoriali.

L'incipit è solenne, carico di pathos e tensione: “Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l'etterno dolore, per me si va tra la perduta gente” (Inferno, Canto III) esordisce Gassman. E da qui inizia un viaggio strabiliante che non lascia tregua e respiro, tra angeli, demoni, diavoli, anime dannate che si flettono, si ribaltano, si allungano, si comprimono, si contorcono, immerse in una dimensione senza tempo, in un oceano rarefatto dove i riferimenti spaziali vengono sovvertiti e stravolti. Assistiamo così a mirabilanti e sinuose acrobazie di corpi in bilico su un filo o che strisciano come gechi sui muri scoscesi del dolore e della perdizione. Una schiera di spiriti ubriachi di follia nuota tra limbi oscuri, lattiginosi e infuocati, brancola nel buio, sospesa in un nulla vischioso e acquoso, costretta a pagare il fio dei peccati terreni a causa dell'inappellabile e perentoria legge della nemesi.

E, dopo infinite peregrinazioni, finalmente la scala vivente che conduce alla luce.

ARTE E SPIRITUALITA' A MILANO LA PRIMA COLLETTIVA DI ARTEINDACO




Giovedì 4 dicembre 2008, presso l'associazione “Energea” di Milano, è stata inaugurata la prima mostra collettiva di “ArteIndaco”, progetto artistico dedicato al rapporto tra arte e spiritualità.

Questa è la prima di una serie di esposizioni che avranno luogo in varie città italiane e coinvolgeranno numerosi artisti.

In mostra, fino al 21 dicembre, le opere di: Ciro Palumbo, Akira Zakamoto, Claudia Giraudo, Ada Muniel, Anna Maria Martini, Marida Maccari, Viviana Ammannato, Alessandra Daya Arnoletti, Maria Elena De Maio Cacciotti, Elena Copetti, Edimar Marcelo Costa, Cristina Gualmini e Manuela Marussi.

Il catalogo della mostra è a cura di Sergio Motolese e Pietro Abbondanza.

“ArteIndaco” (http://www.arteindaco.blogspot.com/) nasce nell'aprile 2008 da un'idea di Luca Motolese (in arte Akira Zakamoto), in collaborazione con “Stazione Celeste” (http://www.stazioneceleste.it/) e Bottega Indaco (http://www.bottegaindaco.blogspot.com/).

Lo scopo di questo progetto è creare una rete di artisti che scandaglino il tema della spiritualità attraverso la ricerca artistica. Un luogo di incontro, dunque, tra persone desiderose di confrontarsi con sensibilità affini, ma anche una fucina di linguaggi facondi, versatili e poliedrici, in divenire continuo, che attingono la propria forza da matrici simili eppure diverse. Non ci sono canoni stabiliti aprioristicamente; esiste solo l'anelito spontaneo e libero di potersi esprimere attraverso il mezzo artistico inteso come strumento ermeneutico che dà forma e intelligibilità alla dimensione interiore, a quella spinta atavica che da sempre l'uomo custodisce dentro di sé: la propria trascendenza, quel quid mistico e misterioso che scavalca l'immanenza per lambire il divino.

Le apparenti aporie qui si smussano e si sciolgono, perché il trade d'union non è una particolare forma di spiritualità o religione, ma la religiosità profonda che alberga nell'essere umano, indipendentemente dalla sembianza e dallo stilema che acquista quando si esteriorizza. La libertà d'espressione, dunque, è la chiave per comprendere il senso di questo progetto. La lettura avviene su metalivelli diversi e a volte apparentemente dissimili, ma, paradossalmente, le differenze esaltano la Bellezza, la incarnano e la valorizzano, elargendo un'armonia eclettica che oltrepassa i paradigmi attesi per addentrasi in un territorio più sottile e intrigante: quello, appunto, della libertà di comunicare ciò che si sente nella maniera a sé più congeniale e consona, senza regole e dogmi.

In “ArteIndaco” gli artisti non solo si incontrano, ma si confrontano e si contaminano, in un percorso scevro da giudizi e pregiudizi. Perché non c'è una “Verità” da svelare, una teleologia da rivendicare, una strada da intraprendere, e neppure alcun intento catechizzante, per fortuna. Esiste solo il piacere di seguire l'impulso che l'anima e l'intuito suggeriscono, senza schemi prefissati né semiologie imposte. La significazione e la comunicazione non seguono strade obbligate. Ognuno può attingere ai propri simboli e al proprio sentire profondo, dando spazio alle proprie ancestrali e intime risonanze. Un simbolismo escatologico sussiste sempre nelle opere di tutti gli artisti di “ArteIndaco”, ma la decifrazione dei simboli sta nell'individualità piuttosto che in una dottrina specifica a cui dover aderire. In questo modo si scongiura il pericolo di creare una setta autoreferenziale dove l'arte diventerebbe mera tautologia prevedibile e scialba, espressione di postulati piuttosto che delle peculiarità di ognuno. La ricerca gnoseologica e artistica non vuole essere di tipo deduttivo, ma piuttosto induttivo, perché solo così è possibile dare respiro all'Arte, concepita come sublimazione estetica dell'universo spirituale di ogni essere umano.

“Bisogna avere ancora del caos dentro di sé per partorire una stella danzante”

F. Nietzsche, “Così parlò Zarathustra”

FIABEPITTURE MOSTRA PERSONALE DI CIRO PALUMBO AVERSA (CE)



Sabato 20 dicembre 2008, ad Aversa (CE), presso la Struttura Comunale Ex Macello, Sala Caravaggio, avrà luogo l'inaugurazione della mostra personale di Ciro Palumbo “Fiabepitture”.

La mostra, curata da Carlo Roberto Sciascia, è organizzata in collaborazione con l'associazione culturale “Naonisart”, nell'ambito dell'iniziativa “Aperitivi d'arte”. L'associazione, attiva a Porcia, Venezia e Aversa, vanta, per l'anno 2009, un calendario ricco di interessanti eventi di carattere letterario e artistico. Ma il fiore all'occhiello è l'iniziativa prevista per il mese di giugno alla Reggia di Caserta, che rappresenterà una sintesi di tutti gli eventi dell'anno, e a cui parteciperanno numerosi artisti tra cui anche lo stesso Ciro Palumbo.

La mostra “Fiabepitture” scandaglia il tema del Sogno attraverso il racconto per immagini.

In queste opere assistiamo a uno sviluppo “dialogico” della pittura di Palumbo. I simboli, gli stilemi, i colori e la tecnica evocano e richiamano la narrazione in modo originale e diverso rispetto a prima.

La parola scritta non viene più solo intuita e immaginata, ma appare sulle tele, spogliandosi però del suo significato linguistico usuale per diventare un significante ancor più emblematico e pregno di simboli, e si trasforma anche in immagine.

La commistione tra pittura e letteratura affascina e seduce, e le due arti si contaminano in modo biunivoco, attingendo l'una dall'altra, per dare vita a un sortilegio raro e prezioso, giocato su infiniti metalivelli espressivi e comunicativi.

I canali interpretativi dell'ultima produzione di Palumbo, dunque, si arricchiscono e si fanno più complessi, perché il segno non rimanda più a se stesso e ad un preciso universo simbolico. Ora il segno gioca a significare molteplici possibilità, spostandosi sia da un campo semantico a un altro, sia da un terreno artistico all'altro.

Se già prima le opere di Palumbo erano feconde di metafore visive, ora assistiamo all'uso di queste figure retoriche non solo all'interno dello stesso registro artistico, ma addirittura mescolando diversi registri e piani espressivi. E proprio qui sta l'originalità e al contempo la grande sfida: riuscire a creare un'armonia singolare e temeraria, azzardando accostamenti insoliti e compenetrazioni rocambolesche.

Ci addentriamo così nel meta-meta-fisico, su un piano ancora più alto, dove la realtà si flette, si piega e si sgretola sempre più, pur rimanendo un baluardo diafano grazie al quale il Sogno e l'Inconscio trovano ancoraggio e senso. Perché per riuscire a lambire l'onirico, il reale deve esistere, ma non per ciò che è, bensì per ciò che può essere e rappresenta, divenendo, appunto, surreale. La realtà non può e non deve essere annientata, ma trasformata. Il pittore è un artefice di significanti e significati, dotato della capacità di plasmare l'universo fenomenico per forgiare le chiavi che possano aprire le porte di mondi nuovi, nascosti sotto la superficie dell'apparenza. Ed è anche un aedo che canta le gesta della propria trasognante odissea.

Il mito ci guida in questa ancestrale ricerca di noi stessi; è il modello che ci aiuta a interpretare i nostri sogni e la nostra storia.

Potremmo definire Palumbo un “pittore-affabulatore junghiano”, perché attinge agli archetipi universali cogliendone non solo la Bellezza, aspetto imprescindibile per chiunque faccia Arte, ma anche i reconditi significati maieutici che custodiscono.

E' necessario che lo spettatore si specchi in questo universo di simboli senza pregiudizi, remore e costrizioni cognitive, perché solo quando si smette di cercare si trova davvero ciò che è essenziale.

“Io sono semplicemente convinto che qualche parte del Sé o dell'Anima dell'uomo non sia soggetta alle leggi dello spazio e del tempo”

C.G. Jung

“QUI” I CREATORI DI FUTURO I BAMBINI, LUCE DI CAMBIAMENTO CORTE DI CANOBBIO, CORTEMILIA (CN) MOSTRA PERSONALE DI AKIRA ZAKAMOTO



Sabato 6 dicembre 2008, a Cortemilia (CN), presso la “Corte di Canobbio”, è stata inaugurata la mostra personale di Akira Zakamoto “Qui. I creatori di futuro. I bambini, luce di cambiamento”.

In mostra, fino al 6 gennaio 2009, nei raffinati locali della “Corte di Canobbio”, 13 dipinti che si ispirano all'universo infantile, tema particolarmente amato dall'artista. La “Corte di Canobbio” è uno splendido edificio del 1500, recentemente ristrutturato, che però mantiene intatti fascino ed eleganza. In questa gradevole e suggestiva cornice, oltre ad ammirare la mostra di Akira Zakamoto, si può sorseggiare un ottimo Nebbiolo o degustare la deliziosa pasticceria a base della pregiata nocciola “tonda e gentile delle Langhe”, fiore all'occhiello della produzione dolciaria della zona, che inebria e rapisce irrimediabilmente il gusto e l'olfatto.

Il progetto artistico prende vita da un'idea di Akira Zakamoto (al secolo Luca Motolese) e Paola Canobbio.

Da una piacevole e spensierata giornata ludica in cui vengono coinvolti i bambini di Cortemilia e dei paesi limitrofi, nascono le fotografie che ispirano i quadri. E nei quadri vengono raffigurati bambini “in carne e ossa”, celebrati sia come esseri “hic et nunc”, sia come emblemi del trascendentale.

L'intento è quello di sottolineare “la deità” insita nei fanciulli, icone chiave della poetica di Zakamoto, che, in questa mostra, acquistano ancor più pregnanza, grazie ad un uso più incisivo e potente degli accostamenti cromatici.

Il ritratto, da sempre emblema dell'arte pittorica, si veste, nella pittura di Zakamoto, di significati “antroposofici” e simbolici, pur conservando anche rimandi storico-artistici che ci riportano alla tradizione rinascimentale del ritratto celebrativo e commemorativo. Ma mentre nel XVI secolo l'idealizzazione ritrattistica assume precise funzioni politiche e sociali, qui si caratterizza in particolar modo di valenze spirituali e teleologiche.

Si parte, quindi, dal gioco, inteso come “gioco serio”, che contiene in sé la facezia ma anche il “pathos”, la trascendenza ma anche l'immanenza. Perché il gioco non è solo finzione catartica, ma anche e soprattutto realtà esperita attraverso la manipolazione del mondo circostante, grazie alla quale l'immaginato diviene fenomenico e acquista concretezza e senso. Il gioco è lo strumento principe attraverso il quale il bambino apprende a essere se stesso, misurandosi con il proprio universo intrapsichico e con la dimensione relazionale del proprio Sé. Gli adulti giocano per tornare ad essere ciò che non sono più; i bambini giocano per diventare ciò che saranno. E nel loro essere “in fieri” l'adulto si specchia, sfiorando per un attimo ciò che era, ciò che potrebbe essere e ciò che sarà. Il bambino, nella pittura di Zakamoto, è un simbolo escatologico di fondamentale importanza, perché esprime la forza motrice dell'universo, lo spirito incarnato nel mondo fisico, come direbbe R. Steiner. I suoi fanciulli, dagli sguardi baluginanti ed eterici, sono gli “angeli” che ci prendono per mano e ci conducono verso i sentieri scintillanti e scoscesi del cambiamento, verso un'epopea “apocalittica”, intesa secondo l'accezione etimologica del termine (dal greco apò-kalyptein: rivelare). Nulla di catastrofico, dunque, anzi. I bambini rappresentano il dolce “fiume eracliteo” del divenire, e nei loro occhi brilla l'acqua limpida di un oceano imperscrutabile ma la contempo tangibile: il futuro in nuce dell'umanità, già presente, ma che deve ancora realizzarsi appieno. Nel tempo del “qui”, dunque, possiamo scorgere un'intuizione, un seme. A noi l'immensa responsabilità di cogliere questo seme, curarlo, accudirlo, innaffiarlo, affinché possa nascere un giorno uno splendido fiore.

“Possiamo perdonare un bambino quando ha paura del buio. La vera tragedia della vita è quando un uomo ha paura della luce”.

Platone