giovedì 1 aprile 2010

SI PUO' - IL DILEMMA DI UN UOMO E UNA DONNA - OMAGGIO A GIORGIO GABER

Sabato 20 marzo 2010, presso il Teatro Espace di Torino, Giampiero Alloisio e Federico Sirianni hanno portato in scena un intenso spettacolo dedicato al Teatro Canzone di Giorgio Gaber, insieme al bravissimo Gianni Martini, chitarrista storico del Signor G., a Claudio Andolfi alle percussioni e al giovane Piji, cantautore romano vincitore del premio Bindi 2009.
La canzone “Il dilemma”, emblema romantico di un amore struggente, tragico e impossibile, fu affidata nel 1981 all'interpretazione di Alloisio, e proprio da qui nasce l'idea di questo spettacolo, che si snoda, appunto, sul filo degli amori impossibili: l'amore per una donna, per un ideale, per un sogno, per una politica che si occupi davvero della “res pubblica”, per una giustizia sociale fondata su basi morali e filantropiche, per la propria interezza di uomo.
Gaber fu un artista unico, perché affrontò sia tematiche inerenti la dimensione sociale, politica e collettiva, sia questioni riguardanti la sfera ontologica, emotiva e individuale, con la stessa eccezionale capacità di analisi, sviscerando questi temi con un'intelligenza, una sensibilità e un acume rari, e riuscendo a coniugare insieme sarcasmo, autoironia, umorismo, sdegno, invettiva e solennità, attraverso uno sguardo sempre estremamente lucido e penetrante sull'universo umano in tutte le sue sfaccettature. Sapeva strappare incontenibili risate, talvolta amare, e allo stesso tempo sapeva far riflettere in modo profondo, mai banale, svelando l'essenza delle cose, al di là della superficialità e del trito e vuoto buon senso comune, oltre ogni etichetta, ogni moda e ogni faziosità.
La magnifica serata è stata orchestrata in modo da alternare canzoni meno note al grande pubblico, come, ad esempio, “ I reduci”, “Ora che non son più innamorato” “Le elezioni” e “L'odore”, a brani celeberrimi, come “La libertà”, “Lo shampoo” e “Barbera e champagne”, mescolando sapientemente pezzi commoventi e densi di pathos, come “L'amico” e “Quando sarò capace di amare”, a pezzi esilaranti e dissacranti, come “La strana famiglia” e “Madonnina dei dolori”, fino a giungere all'epilogo del percorso artistico del Signor G., con “Non insegnate ai bambini”, meraviglioso testamento pedagogico che Gaber scrisse e interpretò poco prima della sua scomparsa.
E ad appassionare ancor più, i gustosi aneddoti di vita vissuta, raccontati da Giampiero Alloisio, che lavorò al fianco del Signor G. per ben sedici anni.
Gli artisti si sono dimostrati all'altezza di una prova per nulla semplice: far rivivere l'eclettico e geniale Giorgio Gaber. E sono stati davvero impeccabili, poliedrici e versatili, intensissimi nell'interpretazione, in grado di emozionare e coinvolgere gli spettatori, e di ricreare quasi la stessa atmosfera potente, incisiva e pregnante che Gaber sapeva elargire al proprio pubblico.
Un omaggio, dunque, ben congegnato e perfettamente riuscito, che ha reso onore a uno dei più grandi artisti del nostro tempo.

Chiara Manganelli

L'ESPRESSIONISMO METAFISICO DEL SENTIMENTO DI MONICA MAFFEI: SGOCCIOLATURE DI POLIFONIE EMOZIONALI


“Non si vede bene che con il cuore, l'essenziale è invisibile agli occhi.”
Il Piccolo Principe, A. de Saint-Exupéry



Monica Maffei, distribuita in esclusiva da “Falpa Promozione Arte”, è una pittrice dotata di rara sensibilità, che attinge la propria ricchezza espressiva da varie esperienze umane e artistiche, per giungere a un percorso personale originale ed estremamente interessante, in continua evoluzione.
L'arte di Monica Maffei è un luogo evanescente e potente, a tratti diafano e a tratti acceso, dove risuona l'eco accattivante dell'ineffabilità; è, come disse Charles Baudelaire “una magia suggestiva che accoglie insieme l'oggetto e il soggetto”, e che innesca una profonda e irreversibile trasformazione della realtà, schernendo sottilmente l'illusione positivista che per secoli ci ha fatto credere che possa esistere un “oggetto in sé”, indipendentemente da colui che lo osserva e lo percepisce. Le opere della pittrice varesina sono cariche di intuizione, di pathos, di slancio, e interpretano il mondo attraverso un vivido ed “epidermico” processo di identificazione empatica, che, attraverso tele dense di striature e chiazze, concrezioni materiche stratificate, alternanze di vuoti e pieni, viluppi di colori a volte opachi e sfumati, a volte brillanti e sgargianti, ci restituisce una gustosa sintesi ermeneutica e semiologica dei recessi più nascosti dell'Io, resa mediante un simbolismo penetrante che sconfina nell'espressionismo astratto. La sua arte è un crocevia dove si intersecano sinfonie di sentimenti cangianti e sfuggenti che rimbalzano dentro dedali di storie di vita quotidiana, creando affabulazioni ambivalenti, imprevedibili, giocose o malinconiche, generate dall'intimità sfaccettata, misteriosa e caleidoscopica dell'anima umana.
E' necessario soffermarsi e indugiare sulle opere di Monica Maffei affinché esse svelino i loro significati più intensi e profondi. A un' analisi superficiale, infatti, i soggetti rappresentati dalla pittrice possono apparire avvolti da un'atmosfera di impenetrabilità ermetica, come se custodissero un segreto inviolabile e difficilmente comprensibile a una lettura negligente e frettolosa. Ed è proprio così: le figure umane impresse sulle sue tele devono essere decifrate con cura e solerzia; sono latori di enigmi e di scorci di esistenza squisiti e arcani, che si manifestano e si rivelano solo a chi abbia l'audacia e il desiderio di guardare con gli occhi del cuore, e di entrare in risonanza emotiva con essi. Nei volti della Maffei le pupille sono bandoli scintillanti e iridescenti che si dipanano verso l'immensità del cielo, che roteano avanti e indietro tra gli anfratti emblematici del tempo, e traboccano di energia vitale anche quando vi serpeggiano i marchi a fuoco del dolore e dell'inquietudine.
Clement Greenberg affermò che la vera arte deve basarsi sul sentimento, e Monica Maffei incarna perfettamente questa concezione dell'arte, lambendo le emozioni che si nascondono dentro le emozioni, in un gioco di scatole cinesi che si schiudono come boccioli alla luce. La luce è lo sguardo della pittrice, di donna, prima ancora che di artista, che sa scorgere oltre le maschere dell'apparenza, che sa sfogliare con delicatezza e acume le pagine dei libri scritti tra le pieghe della pelle delle persone che incontra, e sa farne opera d'arte, trasponendo sulla tela la passionalità sommessa di coloro che si muovono nel mondo in modo compito e discreto. La sua è un'azione di “archeologia umana” finalizzata a recuperare il magma che pulsa sotto la cenere, per ritrovare ciò che giace sepolto dal tempo e dalla frenesia convulsa della vita moderna, dando voce, attraverso il segno pittorico, al fragore del silenzio, ed esprimendo con le immagini quello che la parola riesce appena a sfiorare e abbozzare.
Nei suoi quadri c'è il profumo di uno stile informale che ricorda alcuni artisti del Color Field Painting come Jules Olitski, Kennet Noland e Mark Rothko, e in molte delle sue tele l'uso del dripping richiama l'importanza dell'atto inconscio nella creazione artistica, rimandando ai fondamenti concettuali dell'Action Art di Jackson Pollok. L'impiego di spatolate verticali crea suggestive texture di diversi colori o dello stesso colore declinato in differenti intensità e sfumature, che elargiscono un peculiare effetto di distorsione della profondità prospettica, e che hanno come conseguenza l'amplificazione della dimensione emotiva del soggetto rappresentato.
Ma Monica Maffei non è un'artista informale pura: i suoi dipinti sono quasi sempre popolati da esseri umani, spesso donne, immersi in un'atmosfera rarefatta, sensuale e trasognante. Dunque il suo espressionismo è in parte astratto, in parte figurativo, ha origine dalla sua anima per poi immergersi nell'anima dell'oggetto/soggetto osservato, ed è metafisico (sia in senso pittorico, sia in senso filosofico) perché oltrepassa i limiti della realtà transeunte allo scopo di scandagliare il nucleo arcano ed esoterico dei sentimenti, custodito nell'inconscio individuale e collettivo, che traspare da un guizzo negli occhi, da un gesto, da un'espressione del viso, da una posa del corpo.
Nella pittura della Maffei pare sanarsi l'annoso dualismo tra realtà noumenica e realtà fenomenica: il noumeno qui non è l'idea platonica, intelligibile nella sua purezza solo dall'intelletto capace di trascendere il mondo tangibile, e non è neppure ciò che Kant definiva un tentativo da parte del pensiero di rappresentare ciò che è inconoscibile. Il noumeno della poetica dell'artista non è un attributo della mente razionale, bensì un'essenza primordiale, una struttura fondamentale ed eterna degli esseri che però prende vita dall'emozione, e che supera questa antica dicotomia perché la realtà noumenica non si colloca al di fuori della realtà fenomenica, ma dentro di essa, ad un livello diverso e maggiore di profondità. Il “noumeno”, dunque, è un principio “sentimentale” e non mentale, e non sussiste su un piano differente rispetto al fenomeno. Per Platone solo le idee (noumena) erano conoscibili, mentre per Kant solo i fenomeni, ma in entrambi i casi il dualismo appariva insanabile e insolubile. La metafisica intesa come “scienza della cosa in sé” è sempre stata fonte di accese diatribe filosofiche, poiché si è sempre posto come assunto il pensiero, che, in quanto tale, non può divincolarsi da se stesso e dalla propria autoreferenzialità, e proprio da ciò scaturiva il sillogismo che conduceva all'antinomia. E se ciò che esula la conoscenza non è neppure concepibile, la sua stessa esistenza risulta del tutto indifferente e irrilevante.
Ma Monica Maffei pare dirci che il paradigma che dobbiamo assumere per conoscere e comprendere sia i fenomeni, sia i noumena (cioè la natura essenziale delle cose), non è la ragione, incapace, appunto, di valicare i propri confini, ma l'emozione empatica e intuitiva, che non ha bisogno di capire il mondo in maniera dialettica e dialogica, perché sente in virtù di processi analogici, e così può travalicare se stessa e può portare alla “com-passione”(intesa secondo l'accezione adottata nei poemi omerici). E la pittrice pare dirci anche che non dobbiamo cercare questa essenza fuori di noi e fuori dalla realtà percepibile, ma dentro di noi e dentro il mondo in cui viviamo, imparando a guardare al di là dell'apparenza, negli abissi incommensurabili del cuore.


La natura è spesso nascosta, qualche volta sopraffatta, molto raramente estinta.
Francis Bacon



Chiara Manganelli

ANTONIO SGARBOSSA TRA SOSPENSIONE ONIRICA E “REALISMO SOGGETTIVO”



L'unica vera sorgente dell'arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un'opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio”


Caspar David Friedrich





"Una piccola ala di muro gialla, di cui non si ricordava,
era dipinta così bene da apparire, a guardarla isolatamente,
simile ad una preziosa opera d'arte cinese,
di una bellezza che basta a se stessa.”


Marcel Proust,
À la recherce du temps perdu, La prisonnière





Falpa Promozione Arte” viene fondata negli anni '50 da Guido Gori, e nasce come azienda produttrice di oggetti sacri e cornici. A partire dagli anni '60 inizia a valorizzare il lavoro di alcuni artisti locali, per poi espandere ed ampliare sempre più il proprio interesse per il mercato dell'arte.

L'azienda, attraverso canali divulgativi quali pubblicazioni editoriali, programmi televisivi, partecipazione a fiere e organizzazione di mostre, promuove numerosi artisti contemporanei di prestigio, tra cui: Rodolfo Tonin, Ciro Palumbo, Alfio Presotto, Luca Guizzardi, Antonio Sgarbossa, Claudio Rolfi e Monica Maffei.

L'obiettivo è quello di sensibilizzare il grande pubblico e di sviluppare in Italia e all'estero un mercato teso a sostenere una capillare diffusione di opere d'arte che rappresentino e rispecchino le tendenze della pittura contemporanea.

Un ambizioso progetto di moderno “mecenatismo”, dunque, che viene realizzato in virtù di uno sguardo critico e attento all'evoluzione del panorama artistico dei nostri giorni, e che deve a Sergio Gori la propria linfa vitale.

Tra i vari connubi che “Falpa Promozione Arte” ha intrapreso in questi anni, uno dei più fertili e proficui è senz'altro quello con Antonio Sgarbossa.

Nelle opere dell'artista veneto si assiste a un'analisi minuziosa della realtà, a una solerte e doviziosa celebrazione del dettaglio in quanto simbolo di una dimensione psicologica soggettiva, sospesa in una temporalità squisitamente intima ed evocativa. Il dettaglio, oltre ad essere un significante, e dunque una forma dotata di una propria estetica, è anche significato e rimanda a un contenuto, a una semantica che si articola attraverso l'occhio di chi guarda e vive la realtà. E grazie a un rapporto inscindibile e costante di presupposizione reciproca tra l'aspetto formale e l'aspetto contenutistico racchiuso nei particolari del reale, si definisce e si delinea una delle peculiarità del segno pittorico di Antonio Sgarbossa: l'universo soggettivo.

Le sue opere si fondano su una rara e precisa padronanza della tecnica, e su un “realismo” che, ad un'analisi superficiale, può apparire una mera, seppur ineccepibile, riproduzione della realtà tout court. Invece, a un'indagine più attenta, ci si accorge della portata del linguaggio espressivo dell'artista, che mira a dare risalto non all'oggetto in sé, ma all'oggetto in quanto specchio versatile del mondo interiore dell'osservatore. Così la realtà acquista pregnanza, vita, senso e pulsazione.

Sgarbossa è fedele ad un uso della prospettiva che si rifà agli studi dei grandi maestri dei sec. XV e XVI, perchè, come affermò Leonardo da Vinci,“sempre la pratica dev’essere edificata sopra la buona teorica, della quale la prospettiva è guida e porta, e senza questa nulla si fa bene”. Ma il punto di vista presente nei dipinti dell'artista veneto è originale e inconsueto, quasi “fotografico”, e i tagli prospettici non sono quelli “canonici”, bensì risultano arricchiti da innumerevoli ventagli di sguardi possibili, che scompaginano le visuali consuete e carpiscono le infinite sfaccettature dell'universo immanente.

Nelle opere di Sgarbossa vengono spesso raffigurati ambienti urbani in cui la ricerca volumetrica appare impeccabile e armoniosa, e in cui la composizione delle forme e degli spazi crea atmosfere evanescenti ma nitide, silenziose ma eloquenti, surreali ma tangibili, dense di un'eleganza compita e discreta, e immerse in un tempo onirico e irreale, dove la presenza umana non sempre è evidente: talvolta è quasi nascosta, eppure ineludibile.

Nell'uso di luci soffuse, di colori tenui, sfumati e umbratili, e in talune scelte stilistiche e compositive, i suoi paesaggi e i suoi ambienti urbani possono rievocare l'opera di alcuni esponenti della pittura olandese del '600, come Jan Vermeer, e della pittura romantica inglese e tedesca (William Turner, John Constable, Caspar David Friedrich).

Un altro filone estremamente interessante della ricerca artistica di Antonio Sgarbossa è quello della rappresentazione di figure umane, in particolare femminili, in cui la dimensione “intimista” acquista ancor più rilevanza. Qui l'uso raffinato di giochi di luci e ombre e l'impiego di posture ammiccanti e sensuali, che ricordano Edgar Degas, permettono di dare enorme risalto alla sfera emotiva, conferendo ai soggetti una sorta di estraniato e diafano lirismo, che a volte assume i contorni di un'elegia struggente e malinconica, dispiegata nello spazio fugace di un attimo impalpabile e caduco eppure eterno, avviluppato a rapsodiche e misteriose attese. Le donne di Sgarbossa, affondate in un'incertezza mesta e trasognata, somigliano alle donne ritratte dal celebre Edward Hopper, ma appaiono più risolute e dinamiche rispetto a quelle che popolano le tele dell'artista americano. Nei dipinti di Sgarbossa non si percepiscono né rassegnazione, né dolorosa solitudine; al contrario: vi pulsa e vi pullula la vita. L'apparente immobilismo, in realtà, sottende l'idea del movimento: è un preludio, non una condizione inderogabile, e rassomiglia più a un raccoglimento che precede un'azione e ne suggella l'inizio o la continuazione, che a uno stato di rinuncia e abbandono. E l'erotismo velato di cui sono permeate queste opere sottolinea un fermento in nuce, che traspare dalle pose e dai gesti dei corpi, e che comunica la tensione alla vita generata dal tempo infinito di un attimo.

Chiara Maganelli