venerdì 14 aprile 2017
ZAKAMOTO E IL MONDO DEI GIOCATTOLI
“Sapeva che sarebbe stato sufficiente aprire gli occhi per tornare alla sbiadita realtà senza fantasia degli adulti”
L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie
Akira Zakamoto è da sempre un cantastorie, un aedo che si fa beffe della cecità e ci narra, con le sue sorprendenti alchimie di colori, il magnifico e incantato mondo dell'infanzia. Un'infanzia profetica, che racchiude il seme del cambiamento e scardina il presente per farsi portatrice di un futuro luminoso e vivido, trascendendo l'illusorietà della realtà immanente.
Nell'ultima produzione artistica del pittore, però, non appaiono più i bambini, ma piuttosto gli emblemi dell'universo infantile: i giocattoli.
Essi sono un simbolo, un segno, una sorta di metonimia pittorica volta a rappresentare quel cambiamento che si può compiere solo attraverso il gioco, territorio ambivalente al confine tra realtà e immaginazione, in cui tutto diviene possibile. E sono i bambini, maestri e detentori dell'arte ludica, che hanno la capacità di attingere a quella metarealtà esoterica e onirica grazie alla quale si può creare ciò che ancora non esiste, preconizzandolo.
Le ultime opere di Zakamoto sono popolate da fieri e trionfanti giocattoli, protagonisti assoluti della scena, quasi a voler dileggiare, con garbata ironia, l'universo razionale, scialbo e prevedibile degli adulti. I giocattoli raccontano infinite storie, infiniti mondi, infinite possibilità. Non ci sono limitazioni limitanti, qui esistono solo la fantasia e il desiderio di giocare e mettersi in gioco.
In alcuni dipinti di Zakamoto è raffigurata la carta numero zero dei 22 Arcani Maggiori: il Matto. L'artista sembra suggerirci che l'incipit, il punto zero, ciò che permette di dare vita a qualsiasi cosa, è proprio la follia, intesa come quella temeraria e sovversiva incoscienza che consente all'impulso creativo di generarsi ed espandersi, senza curarsi delle regole e del conformismo. E' infatti questa “follia” che ci spinge ad avventurarci altrove, lungo strade ignote, inconsuete, non ancora battute, per scoprire nuovi universi possibili.
“Sapeva che sarebbe stato sufficiente aprire gli occhi per tornare alla sbiadita realtà senza fantasia degli adulti”
L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie
Akira Zakamoto è da sempre un cantastorie, un aedo che si fa beffe della cecità e ci narra, con le sue sorprendenti alchimie di colori, il magnifico e incantato mondo dell'infanzia. Un'infanzia profetica, che racchiude il seme del cambiamento e scardina il presente per farsi portatrice di un futuro luminoso e vivido, trascendendo l'illusorietà della realtà immanente.
Nell'ultima produzione artistica del pittore, però, non appaiono più i bambini, ma piuttosto gli emblemi dell'universo infantile: i giocattoli.
Essi sono un simbolo, un segno, una sorta di metonimia pittorica volta a rappresentare quel cambiamento che si può compiere solo attraverso il gioco, territorio ambivalente al confine tra realtà e immaginazione, in cui tutto diviene possibile. E sono i bambini, maestri e detentori dell'arte ludica, che hanno la capacità di attingere a quella metarealtà esoterica e onirica grazie alla quale si può creare ciò che ancora non esiste, preconizzandolo.
Le ultime opere di Zakamoto sono popolate da fieri e trionfanti giocattoli, protagonisti assoluti della scena, quasi a voler dileggiare, con garbata ironia, l'universo razionale, scialbo e prevedibile degli adulti. I giocattoli raccontano infinite storie, infiniti mondi, infinite possibilità. Non ci sono limitazioni limitanti, qui esistono solo la fantasia e il desiderio di giocare e mettersi in gioco.
In alcuni dipinti di Zakamoto è raffigurata la carta numero zero dei 22 Arcani Maggiori: il Matto. L'artista sembra suggerirci che l'incipit, il punto zero, ciò che permette di dare vita a qualsiasi cosa, è proprio la follia, intesa come quella temeraria e sovversiva incoscienza che consente all'impulso creativo di generarsi ed espandersi, senza curarsi delle regole e del conformismo. E' infatti questa “follia” che ci spinge ad avventurarci altrove, lungo strade ignote, inconsuete, non ancora battute, per scoprire nuovi universi possibili.
LA DESERTIFICAZIONE DI BASILIO DIPANI
I dipinti di Basilio Dipani dal titolo “Desertificazione”, di recente produzione (2017), sono opere molto suggestive ed evocative, al confine tra l'astratto e il figurativo. L'impatto emotivo di queste tele è tagliente, intenso e pregnante. L'artista sembra voler raffigurare una natura desolata e aliena, ma che conserva ancora un afflato di dirompente vitalità. Il paesaggio è lunare e irreale, e sembra appartenere a un universo parallelo, a una dimensione dagli squisiti toni onirici e visionari. E' una natura dicotomica e atemporale, in bilico tra distruzione e rinascita, tra stasi e movimento, che si ribella alla mano ottusa dell'uomo e resiste caparbia alla sua insolente prepotenza. Le tonalità cromatiche di questi quadri sono acide, ruvide e apocalittiche, e la tecnica utilizzata crea intrecci materici densi di significati simbolici. Nei due quadri è presente un elemento centrale, un velo sottile, emblematico ed evanescente, che rappresenta una scissione, una coriacea dissonanza, e allo stesso tempo dona movimento ed equilibrio alla composizione, creando un sapiente effetto di profondità prospettica in cui lo sguardo, addentrandosi in un orizzonte infinito e arcano, si trastulla e si smarrisce. Pare di assistere a una silente deflagrazione, in cui un magma livido erutta dalle viscere della terra e si riversa nel cielo con tutta la sua potenza distruttrice e rigeneratrice. E come l'araba fenice, alla fine la natura, annichilita e vilipesa, si risveglia e risorge dalle ceneri.
Chiara Manganelli
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