giovedì 22 maggio 2008

AMBIVALENZE


Lubrichi e laidi palindromi di lacerante ambivalenza si stagliano sulle imprudenze impudenti della notte, e io, rozzo batrace camaleontico, disegno disforiche vertigini torve e tumescenti che vomitano rocambolesce riluttanze.

Ma la renitenza si fa a tratti penitente, remissiva e pavida, e l'anima gongola attraverso osceni buchi spalancati su orizzonti di insopportabile e insolente debolezza.
Debordo oro sporco e contaminato, trasudo lapislazzuli grevi e informi che si ergono ad angeli custodi dei miei occhi sparuti e spenti. Le mie labbra, serrate in morse di ghiaccio, diafane e disfasiche, suggellano tracotanti disfatte e abiurano l'abominio di qualsiasi resurrezione.
L'ablazione dei sentimenti è processo inevitabile in questa prigione sulfurea. L'abulia diviene amara e amata compagna di giornate divorate da ripetitività soffocanti e stremanti.
La distruttività, irrinunciabile e infame baluardo di incanti e inganni, si insinua scaltra e arguta nelle vene, con stratagemmi subdoli e terrificanti, millantandosi odiosamente e mistificando dannazioni per estatiche passioni.
Il malsano baratto si fa ignobilmente e spudoratamente saccente e tronfio.
Ghigni affilati, intagliati su muri di pianto policromo, riempiono e assordano le orecchie, e la carne è schiava di questi giochi perversi che trascinano nervi e anima in abissi profondi come gole sataniche.
Mi adagio su sogni color cremisi, su melopee che sovrappongono follie oniriche a ferite aperte da pestilenziali lontananze, e masticando mesticanze di desideri metamorfici e imprecisi, sprofondo dentro impasti e miscellanee di ombre dionisiache e paradisiache, precipitate erroneamente
negli anfratti della mia disfatta. Mi ripeto ossessivamente: " non credere e non cedere ai fantasmi della speranza". Ma si sa: la schizofrenia del cuore schizza fuori dai seminati della ragione e macchia il mondo con stolte pennelate di disperata abnegazione.
Mi addentro per sentieri impervi e ogni tanto mi siedo su montagne calcaree.
Guardo l'orizzonte fiammeggiante e scorgo aquile inquiete che roteano su cieli venati di alabastro. Mi urlano di seguirle per vie adamantine e nitide, ma io, caparbia come una roccia ridicolmente vetusta, resto seduta, crocifissa alla mia seducente solitudine. Una Venere lasciva mi porge arazzi
tessuti di trame mutevoli su cui scricchiolano ossa stanche e volubili, memori di vanesie e vili vanità. L'ordito e' cedevole, e tra molli, capziose e caritatevoli insidie mi accoccolo come bambina spersa e spaesata.
Qui ritrovo ritrosie ritorte su ricordi aciduli che avanzano a ritroso, e mi immergo in orfiche e macabre danze di piacevole sofferenza. Ed ecco giungere un miope Narciso, prodigo di muschi vischiosi e rancidi. Ride come un satiro satanasso e marpione mentre mi invita a rifugiarmi in antri d'ostracismo disperato e desolato. Io mi specchio nelle deformità dolorose di passati e
presenti ruvidi e impertinenti come gli occhi di un elfo seduttore e traditore, ma gli alambicchi chimerici e nefandi di queste sabbie tempestose e nostalgiche divengono il mio sangue, la mia pelle, il mio corpo.
Diplopie marmoree ormai hanno violentato le mie pupille, e il doppio
scivola in me e stilla dai pori lussuriosi dei miei umori incomprensibili.

Chiara Manganelli

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