Corse a perdifiato sotto un cielo terso, cosparso di sogni e paure.
Anni brillanti, innocenti, leggeri, ingenui, sensuali, spalancati su mondi possibili e impossibili.
Anni che si sono accoccolati in fondo al cuore, depositando montagne di dolcezza tra le labbra, come il mare i detriti.
Ma certe dolcezze si sono guastate, diventando amare e opache tra gli specchi distorti della memoria, come cibo avariato dalla troppa attesa.
Altre si sono trasformate in meraviglie ancora più sublimi. E ciò che pareva fiele si è tramutato in ambrosia: imprevedibile e seducente è il gioco delle metamorfosi dei sensi.
Potere sconfinato della mente, che, attraverso fili invisibili, muove, come fossero capricciose marionette, le sensazioni, le emozioni e i sentimenti…
E lungo quei ciottoli accarezzati dalla brezza salata e inquieta, un tripudio di odori e sapori mi avvolgeva con tenerezza e forza.
Risalendo da un palcoscenico di cobalto opalescente, il gusto della salsedine si mischiava al profumo delle more e dei limoni. Il giallo e il viola si stagliavano sulle mie palpebre di carta di riso, come il tramonto sull’orizzonte.
In mezzo alle mulattiere scoscese, avvinghiate alla canicola, la polpa dei fichi maturi si scioglieva tra le mie dita tremanti, mentre le urla giocose delle cicale mi riempivano le orecchie.
E l’arancione prorompente delle albicocche si adagiava sulla mia gola, accompagnando le mie fantasie di bambina spensierata.
Schegge di sublime bontà infilzavano la mia piccola lingua, laggiù dove il sole e l’anima svernano.
E quando il giorno si assopiva tra le braccia della sera, un cassetto magico finalmente si apriva, e tante piccole pastiglie colorate apparivano come per incanto, lucenti e accattivanti, balzando in bocca con voluttà e ingordigia.
Fu l’amore di mio padre a far germogliare in me il seme di questa passione.
Furono le mille sere accese da milioni di balocchi. Furono quei chicchi di mais scoppiettanti, che esplodevano in forme surreali e chimeriche, bianchi come fiocchi di neve. Fu la matassa stucchevole dello zucchero filato che ogni domenica impiastricciava il mio viso. Furono le innumerevoli volte che vidi il misterioso sortilegio compiersi davanti ai miei occhi avidi di curiosità. Furono quelle ore interminabili trascorse acquattata in un cantuccio o nascosta sotto un tavolo, investita da raffiche ruggenti di profumi inebrianti.
Imparai col tempo che la materia si può plasmare a proprio piacimento, e da informe può cangiare in magnifiche sembianze, e che i gusti si possono mescolare in infinite combinazioni, sortendo alchimie inaspettate e sorprendenti.
Ma solo l’amore può insegnare l’amore.
Più tardi capii che il cibo è vita e non può essere morte, e che come tale, quindi, deve rispettare e celebrare la vita.
A quel punto la frattura col mondo si fece cocente e dilaniante, ma inevitabile.
Perché solo la vita può generare altra vita.
Chiara Manganelli
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