“La vera bontà dell’uomo si può manifestare in tutta purezza e libertà solo nei confronti di chi non rappresenta alcuna forza. Il vero esame morale dell’umanità, l’esame fondamentale (posto così in profondità da sfuggire al nostro sguardo) è il rapporto con coloro che sono alla sua mercè: gli animali. E qui sta il fondamentale fallimento dell’uomo, tanto fondamentale che da esso derivano tutti gli altri.”
Milan Kundera
Era una tiepida giornata di inizio ottobre. L’estate indugiava ad emigrare lontano, attardandosi lungo i giorni, come un ragazzino che rimanga in strada a vociare e giocare oltre il tempo a lui concesso, ignorando i ripetuti richiami materni.
Passeggiavo da adolescente accanto al mio mondo di bambina, fiancheggiando quell’edificio rosso ancora pieno di fiabe, disegni e grembiuli macchiati da arcobaleni di pastelli e marmellata, quando ad un certo punto una voce di donna attirò la mia distratta attenzione.
Ricordavo vagamente quella signora possente e arcigna. E come sempre accade quando si registrano cose e persone nell’età dell’infanzia che poi si rincontrano una volta diventati adulti, ella mi apparve molto meno imponente e minacciosa di quanto serbassi nel ricordo. La memoria, si sa, è come una pelle che si adatta al nostro mutevole corpo, e, come una pellicola sensibilissima, imprime su di sé emozioni e umori, per poi miscelare, in un impasto rarefatto e a volte ingannevole, le sensazioni passate e quelle presenti, sortendo una rievocazione che quasi mai corrisponde alla realtà pura dei fatti. Forse perché essa non esiste, in fin dei conti.
Mi avvicinai a quella figura famigliare che sbraitava dietro la lunga cancellata, attirata dai ricordi e da quei minuscoli batuffoli che si dimenavano sul prato. Spezzai il ritmo concitato del mio passo e mi soffermai per un istante che a me parve impercettibile, ma che ella evidentemente percepì benissimo.
Mi si rivolse in modo burbero: “ Ti piacciono?”
“Certo che mi piacciono!” risposi con un sorriso a metà tra l’ebete e il trasognato.
“Ne vuoi uno?”
Un guizzo repentino di stupore inatteso misto a desiderio si accese nel mio sguardo. E la matrona sicuramente lo colse: “Dai, prendine uno!” incalzò.
“Non posso proprio” risposi con rammarico.
Ma sappiamo bene quanto a volte sia pregnante e lampante il linguaggio non verbale, e quanto spesso il corpo smascheri ciò che le parole nascondono…
Il languore stucchevole dei miei occhi svelò palesemente le mie reali velleità, nonostante i deboli e traballanti tentativi di resistere dinanzi alla sua insistenza.
“Entra, dai, guarda come sono belli”.
Ovviamente entrai. Ed erano davvero belli. Due tenere e piccole palle di pelo, una nera e l’altra marrone.
La donna, per convincermi, cominciò a narrarmi una lunga e svenevole storia strappalacrime sulla sorte delle due piccole creature. Non seppi mai se mi raccontò la verità o se si inventò quell’aneddoto al solo scopo di estorcermi il fatidico “sì, ne prendo uno”. Sta di fatto che il fatidico “sì, ne prendo uno” fu ben presto profferito dalle mie labbra. E probabilmente (ma questo ella non poteva saperlo) non sarebbe neppure occorsa quella vivida e rocambolesca affabulazione!
“ Nero o marrone? Femmina o maschio?”
“La femmina” risposi quasi d’istinto. Mi accorsi che lo dissi perché affiorò alla mia mente, repentina come un lampo, una frase impressa nella mia memoria: “Le femmine sono più affettuose”. Era la voce di mio padre acquattata in chissà quale recesso della mia infanzia.
“Si chiama Luna” mi disse porgendomela con la delicatezza e la dolcezza di chi maneggi un oggetto immensamente prezioso e terribilmente fragile.
Presto fatto: senza quasi accorgermene mi ritrovai tra le braccia quel meraviglioso satellite della Terra.
Avvertii il suo calore che si espanse, attraverso il suo piccolo corpo, fin dentro il mio, come una dolce osmosi di liquido benefico e corroborante che scaldi il sangue.
Mi persi nei suoi occhi, scuri come baratri il cui fondo sia coperto di velluto morbido che accarezza lo sguardo, ne attutisce la caduta e ne placa l’irrequietezza.
Quella creatura pavida e tremante mi guardò, mi scrutò, mi scandagliò.
E mi scelse, pur senza apparente possibilità di discernimento. Chissà che cosa vide in quella fugace radiografia. Forse ossa scomposte da mille fratture.
La chiamano empatia, ma nessuna parola può rendere la complessità di quell’intima complicità, della reciproca comprensione e della profonda affinità che due esseri senzienti, a volte, riescono a stabilire fra loro. E l’empatia si beffa del tempo e sovverte le normali regole relazionali, giacché essa può non crearsi mai, neppure dopo anni e anni di conoscenza e convivenza, mentre può scaturire dopo pochissimi attimi o brevi periodi di frequentazione.
Luna. Ma la sua luce fu potente, folgorante e accecante come quella di un sole, e illuminò i miei giorni per dieci lunghi anni.
Quel giorno, tornando a casa col mio fagotto inerme stretto al petto, ebbi la netta la sensazione che la mia esistenza non sarebbe più stata quella di prima, che qualcosa di inesorabile si era compiuto. Quell’incontro fu un seme. Fu una matrioska che col tempo avrebbe partorito altre centinaia di bamboline, una dentro l’altra. Guardando a ritroso il film della mia vita, mi rendo conto che quell’evento fu l’antesignano di una sequela di altri eventi e mutamenti concatenati, destinati a mutare in modo piuttosto radicale la mia concezione del mondo.
Far sì che il nuovo ospite fosse accettato all’interno della famiglia fu più facile del previsto. Dopo brevi e flebili resistenze, Luna fu accolta e amata da tutti.
Ricordo ancora la prima notte con lei, trascorsa insonne a tentare di abituarla, fin da subito, a dormire nel suo confortevole e caldo cantuccio.
Dopo poche ore di inflessibile opposizione ai suoi caparbi pianti e latrati, l’irreprensibile intento di porre qualche regola educativa e comportamentale capitolò, un po’ per lo sfinimento fisico, e un po’ per la mia fisiologica incapacità di esercitare durezza e rigore con qualsiasi creatura debole e indifesa. Così Luna divenne, quella notte e tutte le altre successive della sua vita, parte integrante della coperta e del letto. E del mio instabile e tormentato sonno.
All’inizio i disastri e i danneggiamenti che ella provocò in casa furono incalcolabili. Ciò causò ire funeste e torve minacce da parte dei miei genitori, ma è fin troppo noto che chi tanto abbaia generalmente quasi mai morde. Così Luna passò del tutto indenne attraverso le innumerevoli catastrofi casalinghe innescate da quel meraviglioso e luminoso istinto di giocosa, leggera e incosciente gioia che solo i cuccioli degli animali e degli uomini possiedono.
Crescendo, la naturale inclinazione al “danno”, peraltro avulsa, in questa fase dell’esistenza, da qualsiasi sentimento di astio, rivalsa o vendetta, ma esclusivamente funzionale alla conoscenza del mondo circostante, si mitigò e infine cessò. Ma a differenza degli uomini, gli animali conservano sempre, anche da adulti, una purezza e una trasparenza di sentimenti e di atteggiamenti che permettono a noi umani di instaurare con essi un rapporto unico e ineguagliabile, che scava alla radice della filogenesi e fa emergere in noi sensibilità, capacità comunicative e intuitività quasi dimenticate, sepolte nella lontana memoria delle nostre origini.
Luna percepiva ogni sfumatura dei miei umori e ogni sottile variazione dei miei stati d’animo. E comprendeva altresì le complesse dinamiche della famiglia, le alleanze, i dissapori, i conflitti espliciti e latenti.
Era un catalizzatore verso il quale convogliavano le emozioni positive, e aveva la capacità di creare attorno a sé una zona franca grazie alla quale si placavano le dissonanze e le controversie. Con la sua presenza riusciva a modificare i tumultuosi rapporti interpersonali, spesso a vantaggio di una diminuzione delle tensioni. E come uno specchio, tutto l’amore che riceveva lo rifletteva indietro, cosicché esso non si esaurisse mai e continuasse ad alimentarsi attraverso quel precario e variabile scambio che tiene in equilibrio il dare e l’avere; e se è vero che tale scambio non è e non dev’essere un’eguaglianza matematica, è anche vero che una relazione non può sopravvivere se esso è fortemente sbilanciato da una parte o dall’altra, oppure sopravvive trasformandosi in un gioco di potere malsano e perverso, fatto di dipendenze e ricatti.
Luna fu al mio fianco sempre, tra le alternanze altalenanti di oscurità e luce, paradigma incarnato della fiducia incontrovertibile, scevra da qualsiasi fine sotterraneo e nascosto. La lealtà per antonomasia, lontana anni luce da quel tripudio di dinamiche spurie, meschine e abiette che imperversano nell’universo umano.
Fu al mio fianco nei giorni felici e abbacinanti, nei giorni bui e amari, nelle notti cosparse di dolcezza e speranza, e in quelle popolate da incubi, angosce e deliri. Fu al mio fianco nella fatica immane e titanica che comporta l’inesorabile e ineluttabile passaggio dall’adolescenza all’età adulta, e fu grazie a lei se il disincanto e le numerose disillusioni non riuscirono a cancellare in me quel magico e sublime slancio che consente di rimanere sempre un po’ bambini, conservando il gusto per il gioco, il sogno, la fantasia, il paradosso, l’ingenuità e l’immediatezza.
Per capirsi non erano necessarie le parole, bensì bastava l’eloquenza degli occhi e del corpo, e l’accendersi di sensibilità sottili e arcane.
Talvolta ci è concesso di uscire dalla “caverna platonica” per arrivare a percepire non solo ombre, ma anche la realtà che le genera: sono circostanze preziose, che capitano raramente.
In quei dieci anni di convivenza si stabilirono tra noi un’intesa e una complicità salde e incrollabili. Condividevamo tutto. Non potevo neppure immaginare la mia vita senza la sua presenza, senza il calore splendente dei suoi occhi.
Eppure un giorno infame e tetro, dopo un periodo di malattia, Luna se ne andò.
Se ne andò perché decisi di risparmiarle una fine dolorosa. L’ultimo atto d’amore che potevo compiere per lei era regalarle una morte dignitosa e serena, e dispensarla da tremende agonie. E così feci. Fu una delle decisioni più difficili e laceranti della mia esistenza. Ma agire diversamente, prolungando la sua sofferenza, avrebbe significato dar ascolto al mio arido egoismo anziché all’amore e alla compassione. Perché amare davvero significa volere il bene dell’altro, anteponendolo al proprio.
Sapevo che quel maledetto giorno sarebbe prima o poi sopraggiunto, ma come sempre avviene per le cose scomode, terribili e sgradevoli, si cerca di allontanarne e procrastinarne il pensiero, fino a che la durezza velenosa e dilaniante dell’evidenza ci colpisce e ci tramortisce, come un pugno sferrato dritto alla bocca dello stomaco, ed allora diviene impossibile sfuggire ancora alla crudezza agghiacciante della realtà.
Se da una parte ella restò accucciata tra i miei respiri e avvinghiata tenacemente alla mia anima, dall’altra volò via come un gabbiano, e con lei una parte di me. Coloro che amiamo profondamente, andandosene, ci lasciano sempre un marchio indelebile del loro passaggio, ma al contempo si portano con sé miriadi di brandelli e frammenti di noi. E noi che rimaniamo qui, reduci allampanati e smunti, schiacciati e paralizzati dal gelo, vediamo e sentiamo solo inferno, rabbia e sofferenza. E la ricchezza impareggiabile che un amore intimo e intenso elargisce sembra non riuscire ad esautorare l’atroce crudeltà della perdita. Ci sentiamo soli, indifesi, feriti; piccoli esseri barcollanti e incespicanti alla mercé delle bufere vorticose e dei capricci del destino. In quei momenti esistono solo il vuoto e un dolore sordo e intollerabile che rimbomba fragorosamente dentro le tempie, e che sembra spezzare irrimediabilmente le vene e i nervi.
La mia piccola bambina si abbandonò e poi si addormentò fra le mie braccia, come un guerriero spossato ed esangue che abbia troppo a lungo combattuto in
territori stranieri per espugnare roccaforti e torrioni, con la terra natia dentro il cuore. Si assopì come un marinaio che abbia affrontato mille tormente e naufragi, con l’oceano e il vento dentro lo sguardo. Morì con la dolcezza serafica e lieve di chi non abbia più conti in sospeso, ma solo crediti, con l’esistenza. E più di lei morirono coloro che la amarono, con addosso il rancore di chi acclami la vendetta per estinguere l’ingiustizia.
Non c’è nulla che ripaghi, che lenisca, che consoli, che conforti. E quando persino le lacrime esauriscono il loro copioso flusso, gli occhi rimangono asciutti come deserti immobili, come lividi e foschi crateri, privi di fulgore e vividezza. E la luce e i colori sembrano immensamente distanti, destinati a non fare più ritorno.
Restituii il suo corpo alla terra e al mare.
E ora su quel lembo di terra prospiciente il mare vi è un magnifico e rigoglioso albero di fiori colorati e lucenti. E ogni volta che guardo quella vita generata da un’altra vita, penso che forse non esistiamo invano, e gli occhi di Luna riappaiono limpidi, fulgidi e brillanti in mezzo ai teneri petali e alle fronde di quel bellissimo e timido albero…
Chiara Manganelli
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