“Factory girl” è una pellicola piuttosto controversa, che ha scatenato polemiche e perplessità.
Il film, girato nel 2006, scritto da Captain Mauzner e diretto da George Hickenlooper, racconta la vita eccentrica, estrema e tragica di Edie Sedgwick e il suo rapporto intenso e ambivalente con l’indiscusso re della Pop Art, Andy Warhol.
Edie Sedgwick, rampolla di un’altolocata e blasonata famiglia americana, ebbe un’esistenza breve e costellata di vicissitudini. L’incontro con Andy Warhol la portò alla ribalta, collocandola ai vertici della scena artistica newyorkese underground degli anni ’60. La “fabulous superstar” (così la soprannominò Warhol) fu modella, attrice e artista a tempo perso, ma sembrava più attratta dalla celebrità piuttosto che dall’arte in sé.
Warhol era attirato e ammaliato dal fascino enigmatico e magnetico di Edie, e la loro ambigua e travolgente passione li trascinò al centro della vita pubblica newyorkese. Il connubio tra i due fu proficuo e folgorante (insieme girarono ben undici film), ma la loro amicizia fu tanto esaltante e pregnante quanto breve e fugace. Il loro tumultuoso rapporto fu permeato e caratterizzato da una miscellanea di elementi intrecciati fra loro: creatività, gioco, irriverenza, trasgressioni, perversioni, eccessi, sregolatezza, provocazioni.
Edie ben presto venne abbandonata sia dal suo mentore (che la rimpiazzò con Nico, sua nuova musa), sia dall’uomo che amava (probabilmente Bob Dylan, ma il cantante ha sempre smentito e negato). In seguito a ciò Edie scivolò nel baratro della depressione e nella spirale delle droghe, e morì a soli 28 anni in seguito a un’overdose.
La fragile Edie fu l’emblema tragico e amaro della stella “usa e getta”. Ciò rispecchiava perfettamente la cultura americana dell’epoca, che divorava, consumava e buttava via tutto, persone comprese.
Ed è proprio in questo contesto, ben enfatizzato e messo in luce dal film, che si colloca e trova un senso il percorso artistico di Andy Warhol. Egli, infatti, attraverso l’uso della serigrafia e la rappresentazione di oggetti d’uso quotidiano (le famose lattine di Coca-Cola e della zuppa Campbell’s, i fustini dei detersivi Brillo) riesce a connotare l’arte servendosi dei parametri della cultura consumistica. Warhol raffigura un’epoca utilizzando i suoi simboli chiave e servendosi di tecniche proprie della società di massa. L’arte, dunque, viene consumata, esattamente come un qualsiasi prodotto commerciale; i prodotti di consumo divengono prodotti d’arte.
L’opera d’arte, quindi, non è più un qualcosa di astratto e irreale, difficilmente intelligibile, ma diviene specchio del mondo tangibile, da esso attinge e ad esso rimanda. Gli oggetti rappresentati ripetutamente, in modo quasi ossessivo, e l’uso di colori sgargianti e vivaci, ci comunicano l’intento di creare un qualcosa di nuovo e diverso pur partendo da uno stimolo immanente e materiale. Allo stesso tempo pare esserci anche la volontà di provocare, smitizzare e dissacrare grandi icone e mostri sacri, alterando e serializzando le immagini dei loro volti ( Marilyn Monroe, Che Guevara e altri ancora).
Warhol fu non solo pittore, ma artista a 360 gradi, poliedrico e versatile. Fu anche scultore, regista di film e lungometraggi, fondò una televisione, fu testimonial della rivista “Vogue”, collaborò con i Velvet Underground disegnando la copertina del loro primo album di successo. E creò le cosiddette “factory”, veri e propri laboratori di sperimentazione artistica, fondamentali per tutto il panorama artistico dagli anni ’60 in poi.
Attorno alla prima e più famosa factory di Warhol gravitarono alcune figure di spicco dell’ambiente artistico dell’epoca, come Francesco Clemente e Jean-Michel Basquiat.
Dunque Warhol fu un personaggio estremamente carismatico e geniale. Egli influenzò il panorama artistico di quegli anni e gettò le basi per una vera e propria rivoluzione culturale che segnò la storia dell’evoluzione artistica in tutto il mondo occidentale.
Chiara Manganelli
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