mercoledì 16 luglio 2008

TESTO CRITICO DEL CATALOGO DELLA MOSTRA "IL VOLTO INCARNAZIONE DEL SOGNO"

A Luca, Ciro, Claudia, Laura e Luisella

che hanno donato linfa, fuoco e ricchezza ai miei Sogni,
aperto nuove porte alla mia anima e al mio cuore,
e senza i quali non sarebbero mai esistiti
né questo testo, né la persona che l’ha scritto

Con l’augurio che possano sempre avere la forza e la tenacia per dare consistenza e forma ai loro Sogni


“Non si vede bene che con il cuore,
l’essenziale è invisibile agli occhi”

Il Piccolo Principe, A. de Saint-Exupery


UN VIAGGIO
DALL’ILLUSIONE DELLA REALTA’
ALLA REALTA’ DEL SOGNO

Mi aggiro, come profugo in cerca di companatico, tra gli anfratti scivolosi e impervi di un universo ambivalente e cangiante. Sono in viaggio, ma ho perso la bussola. La mia nave è governata da venti veementi e disforici. Il mio mare è in rivolta, sconquassato dalle tempeste, e si aggroviglia su se stesso rimescolando i desideri, confondendo le emozioni e occultando i tesori custoditi dagli abissi. Scorgo – o sogno? - la dolcezza di un’Itaca accogliente abbarbicata tra le luci soffuse dell’orizzonte, ma non distinguo più l’illusione dalla realtà.
Dopo un tempo indefinibile e indefinito approdo su una terra sconosciuta e straniera: un’isola dai profumi di spezie, dalla luminosità intensa e sfolgorante, che culla le pupille tra le sinuosità dei suoi misteri ammalianti e imperscrutabili. E’ la mia agognata Itaca oppure è un territorio ostile e insidioso, abitato da una Circe conturbante e ingannevole?

Inizia così il mio esodo dal mondo materiale delle illusioni alle suggestioni raffinate di queste due mostre che vogliono celebrare il Sogno in tutte le sue sfaccettature e incarnazioni.
S. Freud riteneva che l’artista fosse in grado di attingere ai moti più segreti dell’anima, sublimando i propri desideri reconditi e le proprie pulsioni nascoste. E’ indubbio che la pittura possegga valenze euristiche, esegetiche ed evocative sconfinate. Nessun’altra forma d’arte riesce a mettere in luce in modo altrettanto pregnante e potente il magma incandescente dell’inconscio.
Il Sogno qui viene assurto quasi ad archetipo universale, ed è un mezzo per accedere sia al proprio inconscio individuale, sia a quella dimensione psichica, comune a tutti gli esseri umani, che G. Jung chiamò inconscio collettivo.
La personale di Ciro Palumbo accoglie le risonanze del Sogno e le trasla sulla tela conferendo ad esse molteplici sembianze, mentre l’esposizione collettiva (C. Palumbo, A. Zakamoto, C. Giraudo, L. Giai Baudissard e L. Bardella) esplora il volto umano in quanto elemento ermeneutico per comprendere il Sogno, che ci conduce ad esso attraverso una sorta di processo epagogico denso di caratteristiche metacomunicative.
Il mio è un viaggio emozionale all’interno di questo percorso artistico, che oscilla tra vari ruoli e identità. E’ un bizzarro gioco teatrale di metamorfosi e sdoppiamenti.
E, come un benevolo Caronte, cercherò di traghettare le anime dalla sponda del mondo conosciuto alle rive di universi stupefacenti e seducenti, dal mondo limitato e circoscritto della realtà spuria e immanente al mondo sterminato e sconfinato del Sogno.

Vedo in lontananza viaggiatori intrepidi e impavidi che si inerpicano lungo sentieri incantati e frastagliati. Mi avvicino lentamente a loro, di soppiatto, acquattandomi e nascondendomi in mezzo alla fitta vegetazione, come inspiegabilmente attirata dall’irresistibilità gravitazionale di un magnete. Portano con sé bisacce ricolme di misteri. Il loro bagaglio è leggero, il loro passo sicuro e veloce. Sembra sappiano dove dirigersi.
Li guardo, osservo i loro occhi, che paiono diamanti opalescenti, gocce di densa rugiada che brillano alla luce dell’alba. Il loro sguardo è una sferzata languida che scintilla lungo i cunicoli di un labirinto arcano e sdrucciolevole. Dove vanno quegli uomini e quelle donne? Qual è la loro meta ultima?
Mi guardano e mi sorridono, come se mi aspettassero da sempre. Mi avvicino ancor più, con circospezione e prudenza.
“Vieni con noi” mi sussurrano con voce armoniosa che pare una musica inebriante. Mi prendono per mano e mi portano via.

Con le opere di Ciro Palumbo “entriamo nel Sogno” in modo sconcertante e visionario, percorriamo il fascino di miti e leggende dell’antichità, ci troviamo attorniati da simbolismi, contrasti, parossismi e giochi cromatici che ci ricordano i grandi mostri sacri della Scuola Metafisica e del Surrealismo (G. De Chirico, A. Savinio, R. Magritte, S. Dalì), ma Palumbo reinventa e reinterpreta la tradizione formale di queste due grandi correnti artistiche per approdare a una pittura del tutto personale e originale.
Affondo nelle poliedriche sfumature oniriche che popolano le sue opere, rovisto oltre la superficie per scoprire il significato ultimo che esse intendono esprimere. Mi sento un giullare ramingo, un viandante smanioso, un Orfeo irrequieto che contravviene agli ammonimenti di Plutone e si volta indietro per cercare l’Amore.
Mi perdo tra i suoi palcoscenici gremiti da dei, semidei, eroi e chimere, teatri dove la commedia umana, tra mito, sogno e realtà, si consuma e si perpetra dalla notte dei tempi, sempre uguale ma sempre diversa. Vago come un naufrago tra eterei oceani interiori; incespico come un giullare da avanspettacolo tra frammenti di giochi circensi. Balzo come un funambolo da un’isola all’altra, cercando spasmodicamente salvezza e riparo dalle tempeste dell’anima. E la Bellezza esteriore e interiore è un baluardo inoppugnabile, è il “filo di Arianna” che ci guida lungo i sentieri seducenti di questa peregrinazione incessante.
Spesso ci si fonde con l’oggetto osservato, soprattutto se esso racconta una storia ed evoca emozioni ancestrali impresse nella memoria biologica e psicologica della nostra specie.
Riprendo il mio cammino, avventurandomi alla scoperta di questi ed altri Sogni…

Da un viaggio incerto e confuso, intrapreso per caso, eccomi immersa in un viaggio cosmico, lungo spirali vorticose che trascendono il tempo e lo spazio.
Questi uomini e queste donne, adornati da sogni sgargianti, mi conducono tra le pieghe morbide e voluttuose di sarabande fiammeggianti e respiri infiniti, accesi da colori ruggenti e mondi avvolgenti.
Palpita la mia carne, e il mio sangue pulsa nuovamente di un rosso cremisi che screzia l’anima di vita e passione.

La strada che porta al Sogno, dunque, è lunga, piena di sorprese, folgorazioni e imprevisti. E sul cammino incontro altri arditi cantastorie che aprono le porte dei loro mondi allo spettatore che voglia scoprire i segreti racchiusi nelle loro opere.
Il Sogno si trasforma, si scinde in infinite possibilità, perlustra miriadi di identità e prospettive. E dalle affabulazioni di Palumbo entriamo nel “futurismo” di Akira Zakamoto, che, attraverso impasti cromatici potenti e accesi, annuncia un futuro “in nuce”, che è, sarà ed è già avvenuto, perché nel suo Sogno la linearità del tempo perde di pregnanza e rilevanza, e la convenzionalità spazio-temporale a cui il mondo contingente ci avvezza viene trascesa e superata. Il Sogno, nella pittura di Zakamoto, assume un significato escatologico, e si abbarbica tra gli sfavillanti sguardi vaticinanti di esseri puri e profetici. Bambini avvolti dall’indaco detengono la chiave che apre la via al cambiamento universale e ne preconizzano la realizzazione sospingendo il genere umano verso un’evoluzione naturale e necessaria che ha valenze endogene prima ancora che collettive. I suoi mondi esplodono, si disgregano e si destrutturano non per nichilismo e disfattismo, bensì per seguire e assecondare le correnti di un flusso inesorabile che si tinge di luce e positività. Ogni fine preannuncia sempre un inizio. Questo processo è scevro da scotomizzazioni e separazioni: è una confluenza. Le dicotomie non sono dolorose lacerazioni, ma diversi aspetti di un'unica dimensione olistica e “panica” che contiene e armonizza anche le apparenti contrapposizioni. La deflagrazione del vecchio non intende essere una frattura conflittuale, insanabile e traumatica, ma rappresenta una continuità evolutiva connotata da fiducia e autoconsapevolezza. Come affermava Eraclito, non ci si può immergere due volte nello stesso fiume, perché “panta rei”. Il viaggio di Zakamoto è ascendente, mai discendente, ed è prima di tutto un viaggio spirituale e interiore.

I due uomini e le tre donne si muovono con passo eterico ed evanescente. I loro sogni hanno trame e storie diverse, eppure si intrecciano come un ordito tessuto dalle dita affusolate e sapienti di un dio irriverente e giocoso.
Questi esseri si abbeverano di desideri tenaci e sfrontati, e si sfamano dei loro munifici sogni per regalare al mondo delle forme immanenti cascate di colori caleidoscopici e iridescenti.

E in questo viaggio esorbitante che non ha mai fine, vedo occhi simili ai miei, fieri e limpidi, di lunari creature femminee che dispensano linfa vitale all’arte, perpetrano la propria forza sotterranea e affermano la propria divina e orfica identità.
Le elaborazioni fotografiche di Laura Giai Baudissard ci portano alla radice filogenetica del nostro essere, esprimendo l’anelito a un ricongiungimento con la sacralità della natura intesa come “physis”, forza generatrice e propulsiva che profonde vita, amore, interezza e movimento all’essere umano, elargendo un senso profondo alla sua esistenza. Ma prima ancora di recuperare un contatto con la terra e la natura, l’uomo deve riconnettersi con il proprio inconscio, dunque con la propria natura primordiale. Perché solo ritrovando l’armonia interiore è possibile raggiungere un’armonia con ciò che ci circonda. Giai Baudissard ci comunica che viviamo in un mondo di illusioni sistematiche, endogene ed esogene, che ci sviano costantemente dalla strada che ci dovrebbe riportare a raggiungere noi stessi. Ed è necessario superare il frastuono fragoroso che ogni giorno ci disorienta e ci inganna per tornare a immergerci dentro la nostra essenza autentica, in sintonia con il Tutto.

Questi rabdomanti scavano nei recessi delle loro anime con l’ingenuità lieve di bambini rapiti dall’enfasi di una Bellezza assoluta, che risucchia chiunque la sfiori dentro i suoi maliardi vortici di irruente eternità.
Si specchiano dentro laghi lattiginosi di dolce ambrosia che accarezza i sensi e si espande tra i sentieri scoscesi del piacere. Non si compiacciono della propria bellezza come stolti Narcisi smembrati e trasformati in petali caduchi, bensì cantano, come aedi che oscillino attraverso il tempo e lo spazio, la Bellezza di universi assopiti tra le radure dell’anima umana, e la cecità diviene sguardo sapiente che si spinge oltre le frontiere della consuetudine. La loro voce è il pennello, e volteggiano tra bianche tele su cui riversano mestiche di mistici colori che risuonano come profetiche melopee intonate da vibranti e magnifiche cetre.

Da sinuosi tentacoli d’edera avvoltolati attorno a sguardi scintillanti, sprofondo in nuvole vermiglie che celano un sorriso ammiccante e lucente. La pittura di Claudia Giraudo si snoda lungo palcoscenici calcati dal passo nobile ed elegante di attori senza tempo, avviluppati da broccati preziosi e
monili pregiati. Questi personaggi sono avulsi da qualsiasi contesto storico e spazio-temporale, perché simboleggiano l’inesauribile gamma delle possibili identità dell’essere umano. Essi giocano sulle tele, si trastullano con i colori e gli oggetti, ma Giraudo non intende rappresentare dei guitti sornioni e grotteschi che si burlano di se stessi e degli altri, bensì figure altere e perfette che inventano e plasmano infinite maschere, in quanto individui liberi di essere chiunque pur mantenendo la propria identità ontologica più intima e profonda. Attraverso questo gioco faceto e ironico di seducenti metamorfosi, Giraudo vuole encomiare ed esaltare la bellezza dell’individuo nel momento in cui si spoglia delle sue fattezze e vestigia abituali, esce dalle prigioni dell’immobilità e della prevedibilità, supera gli schemi, le aspettative, lo stigma della categorizzazione che la società e il Super Io gli impongono, per lambire la libertà di essere se stesso fino in fondo. Un Sogno, dunque, che ha il vago sapore di un paradosso, perché, attraverso l’incarnazione di personaggi (maschere) diversi da sé, si realizza la personificazione della propria eterna e assoluta bellezza, ed è proprio in virtù di questo meccanismo che ci si emancipa dalla propria persona (intesa come maschera, secondo l’accezione latina del termine).

Questi cantori, oracolanti acrobati a caccia della magia sinuosa del Sogno, conducono me, spettatore inerme e ignaro, dentro questo viaggio sorprendente, e plasmano i miei occhi come fossero perle indaco di plastilina da reinventare e rimodellare, per forgiare sguardi nuovi e strabilianti.
Un viaggio nel viaggio. Il mio, che si incrocia con il loro. Il loro, che diventa anche il mio. Mi specchio nella mia frammentazione per imprimere respiro alle contorsioni torbide e farraginose dei miei Sogni. E i miei sogni si stagliano sui loro, vi si adagiano e vi si mescolano, rigenerandosi all’infinito. Un gioco di specchi che si riflettono l’uno nell’altro, incessantemente, intrecciando baluginii silenti e sottili, ossimori, paradossi, simboli onirici, frammenti di passato e futuro, in una sarabanda dionisiaca che scuote i nervi e scandaglia le fibre tortuose dell’inconscio.

Luisella Bardella ci conduce sulla soglia di un Sogno intimo e delicato che prefigura qualcosa che ancora non esiste, eppure stanzia già nelle viscere, e forse lì vi si accoccola da sempre: due lembi di una sola anima si ricongiungono nell’atemporalità del Sogno prima ancora che nella realtà fenomenica. Il legame unico e meraviglioso che unisce in modo simbiotico e indissolubile una madre a una figlia diviene una scelta intensa e tenace, che si erge oltre la confusione del caos. Dunque il Sogno annienta la casualità del fato e forgia la realtà perseguendo desideri e aspirazioni personali. Il dolce contrappunto di due anime che si cercano e si fondono, trascendendo il tempo lineare e anticipando la compenetrazione materiale dei corpi, ci fa comprendere che gli eventi del mondo fisico sono il riflesso manifesto di un mondo più sottile e misterioso, e nulla avviene mai per caso, ma ogni cosa, consciamente o inconsciamente, viene scelta da noi. Questo “paradigma” conferisce all’essere umano il ruolo di nocchiere e auriga della propria vita, e, allo stesso tempo, lo cala in una dimensione di responsabilità ineludibile nei confronti di se stesso e degli altri.
Bardella ci porta anche, attraverso le proprie opere, dentro intriganti mondi materici dove la manipolazione della materia diviene catarsi e sperimentazione continua, alimentata da un flusso creativo che permette di esprimersi inventando nuovi e imprevisti tessuti semantici. E le forme consuete e desuete acquistano significati diversi e originali, così come forme sconosciute possono combinarsi e ricombinarsi per essere ricondotte a simboli visivi noti e familiari.

Ogni tanto ci viene concesso il privilegio di uscire dalla caverna platonica in cui siamo imprigionati e intrappolati, e possiamo così percepire non solo ombre cinesi che brulicano su un muro, ma anche la realtà che le genera.
Guardo ancora i volti di questi profetici maieuti, volti trasognanti che generano e partoriscono altri volti sfolgoranti e sfavillanti. E non distinguo più la consistenza della carne viva dall’amalgama di colori impressi su filigrane di cotone. Forse non è possibile compiere questo discernimento. Perché quando l’apogeo del viaggio si avvicina, tra realtà e sogni non esiste più alcuna differenza.

Chiara Manganelli

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