mercoledì 29 ottobre 2008

"La prova del miele", erotismo decadente e inconcludente

“La prova del miele”, scritto dalla poetessa siriana Salwa Al-Neimi, somiglia più al diario stucchevole, ingenuo e sfilacciato di un'adolescente piuttosto che a un romanzo erotico.

Acclamato ed encomiato in tutto il mondo come il bestseller dell'anno, in realtà questo libro non ha

niente a che vedere con la grande letteratura erotica del Novecento, densa di sensualità, seduzione e spudoratezza, che annovera, tra i suoi più noti esponenti, autori del calibro di Henry Miller, Anais Nin e Dominique Aury, solo per citarne alcuni.

Un romanzo decisamente scialbo e privo di mordente, che non riesce a rapire e a stuzzicare il lettore con il fascino sottile, velato e ammiccante dell'erotismo, ma neppure riesce a “scandalizzarlo” e a scuoterlo con una prosa concitata, esplicita e impudente, come un'onesta e sana opera pornografica esigerebbe. E non è neanche un romanzo d'amore.

La protagonista del libro, una bibliotecaria del dipartimento di Arabistica dell'Università di Parigi, tesse, dalla prima all'ultima pagina, infinite lodi alle gesta erotiche del “Pensatore”, uomo fondamentale per lei, amante- maieuta che la inizia ai misteri e ai piaceri della carne. Il tutto condito con riflessioni sparse e confuse, ricordi vaghi e imprecisi, e riferimenti letterari e linguistici deboli e sfuggenti.

Le premesse sono promettenti, ma poi la prosa diviene scipita, traballante, in certi punti addirittura tediosa.

Ogni tanto si scorge qualche intrigante e appassionante barlume, ma subito la scintilla si spegne.

E' curiosa e originale l'analisi etimologica che l'autrice tenta di compiere citando alcuni stilemi e vocaboli della lingua araba, ma essa è troppo frettolosa. Così come i riferimenti ai testi antichi di letteratura erotica araba, scritti da grandi maestri sùfi: tutti spunti molto interessanti, che però cadono nel vuoto, si disperdono, scivolano via lasciando in bocca un appetito che non trova mai sazietà. Il lettore rimane costantemente in una dimensione di attesa che non viene mai colmata e soddisfatta.

Anche il concetto “tantrico” del piacere carnale come mezzo per raggiungere l'elevazione morale e spirituale è sicuramente degno di nota. Ma pure in questo caso l'analisi risulta essere superficiale, farraginosa, fragile e lacunosa.

Ennesimo tema che avrebbe potuto essere analizzato e sviluppato, e che invece viene solo sfiorato e accennato, è il rapporto tra sessualità e femminilità nella cultura musulmana.

Un romanzo, dunque, pieno di potenzialità, ma che fatica a decollare, che lambisce tutto fugacemente, senza mai andare in profondità, e che lascia nel lettore un senso di insoddisfazione, frustrazione e incompiutezza.


Chiara Manganelli

lunedì 6 ottobre 2008

SACRA ERESIA

Il sole custodisce l’orizzonte. Lo culla, lo disegna, lo nutre di luce. E lo sposta sempre più in avanti, lo lancia oltre lo sguardo, dove solo l’occhio della mente lo può raggiungere. Noi, delfini umbratili, sacri e sacrileghi, sempre in bilico tra eresia e santità, tra follia e assennatezza, nuotiamo incessantemente tra gli abissi di un oceano bizzoso e impetuoso.
La linea di questo orizzonte sensuale e seducente si flette, si distende, si cancella, appare, riappare, acquista forme deformi e impertinenti, scorre tra le palpebre socchiuse dell’anima, ondeggia e oscilla nei territori incontaminati e incontenibili dell’immaginazione, e risplende come un diadema scintillante, come un crepitio baluginante di un sorriso sperso tra lo spazio obliquo dell’ineffabile.
La fantasia rotola nell’aria come bolla di sapone diafana e iridescente, si posa su frammenti di pensieri sconnessi e imprecisi, sparpagliati tra nuvole eburnee, per stravolgerne il colore e la sembianza, attingendo trascendenza e misticismo dalle viscere attorcigliate dell’inquietudine.
Le labbra mordono e divorano il frutto sconosciuto e inebriante partorito dalla propria raggiante e vorticosa deità, e le mani forgiano figure fantasmagoriche che si abbeverano alla fonte inesauribile di una sapienza profonda e nascosta.
I grumi dei respiri si sciolgono e scorrono lungo lingue fiammeggianti di musiche adornate di orfici misteri. Si dilata il tempo, si dilata lo spazio. Tutto diviene possibile.
Il seme è nella nostra carne, il fiore è amplesso che sgorga dal nostro sguardo audace e vorace, e la chiave che apre lo scrigno dei segreti ancestrali è racchiusa tra le lande di un’isola aspra e austera dove l’anima teme se stessa e incontra ombre fosche e torve di fantasmi che la perseguitano e la flagellano.
Al di là della nebbia, al di là del gorgo della tempesta, il cielo rabbruscato si apre e si spalanca nuovamente alle piogge pulsanti e sferzanti della luce.
E il sedicente dio ultraterreno, inventato e millantato per renderci schiavi scheletrici e smunti, viene schiacciato da un dio terreno, l’unico vero dio che possa davvero esistere, e che abita la dimora del nostro Io supremo, perfetto e impalpabile, attraversando cicli di infinite metempsicosi.