martedì 16 maggio 2017
venerdì 14 aprile 2017
“Sapeva che sarebbe stato sufficiente aprire gli occhi per tornare alla sbiadita realtà senza fantasia degli adulti”
L. Carroll, Alice nel paese delle meraviglie
Akira Zakamoto è da sempre un cantastorie, un aedo che si fa beffe della cecità e ci narra, con le sue sorprendenti alchimie di colori, il magnifico e incantato mondo dell'infanzia. Un'infanzia profetica, che racchiude il seme del cambiamento e scardina il presente per farsi portatrice di un futuro luminoso e vivido, trascendendo l'illusorietà della realtà immanente.
Nell'ultima produzione artistica del pittore, però, non appaiono più i bambini, ma piuttosto gli emblemi dell'universo infantile: i giocattoli.
Essi sono un simbolo, un segno, una sorta di metonimia pittorica volta a rappresentare quel cambiamento che si può compiere solo attraverso il gioco, territorio ambivalente al confine tra realtà e immaginazione, in cui tutto diviene possibile. E sono i bambini, maestri e detentori dell'arte ludica, che hanno la capacità di attingere a quella metarealtà esoterica e onirica grazie alla quale si può creare ciò che ancora non esiste, preconizzandolo.
Le ultime opere di Zakamoto sono popolate da fieri e trionfanti giocattoli, protagonisti assoluti della scena, quasi a voler dileggiare, con garbata ironia, l'universo razionale, scialbo e prevedibile degli adulti. I giocattoli raccontano infinite storie, infiniti mondi, infinite possibilità. Non ci sono limitazioni limitanti, qui esistono solo la fantasia e il desiderio di giocare e mettersi in gioco.
In alcuni dipinti di Zakamoto è raffigurata la carta numero zero dei 22 Arcani Maggiori: il Matto. L'artista sembra suggerirci che l'incipit, il punto zero, ciò che permette di dare vita a qualsiasi cosa, è proprio la follia, intesa come quella temeraria e sovversiva incoscienza che consente all'impulso creativo di generarsi ed espandersi, senza curarsi delle regole e del conformismo. E' infatti questa “follia” che ci spinge ad avventurarci altrove, lungo strade ignote, inconsuete, non ancora battute, per scoprire nuovi universi possibili.
LA DESERTIFICAZIONE DI BASILIO DIPANI
I dipinti di Basilio Dipani dal titolo “Desertificazione”, di recente produzione (2017), sono opere molto suggestive ed evocative, al confine tra l'astratto e il figurativo. L'impatto emotivo di queste tele è tagliente, intenso e pregnante. L'artista sembra voler raffigurare una natura desolata e aliena, ma che conserva ancora un afflato di dirompente vitalità. Il paesaggio è lunare e irreale, e sembra appartenere a un universo parallelo, a una dimensione dagli squisiti toni onirici e visionari. E' una natura dicotomica e atemporale, in bilico tra distruzione e rinascita, tra stasi e movimento, che si ribella alla mano ottusa dell'uomo e resiste caparbia alla sua insolente prepotenza. Le tonalità cromatiche di questi quadri sono acide, ruvide e apocalittiche, e la tecnica utilizzata crea intrecci materici densi di significati simbolici. Nei due quadri è presente un elemento centrale, un velo sottile, emblematico ed evanescente, che rappresenta una scissione, una coriacea dissonanza, e allo stesso tempo dona movimento ed equilibrio alla composizione, creando un sapiente effetto di profondità prospettica in cui lo sguardo, addentrandosi in un orizzonte infinito e arcano, si trastulla e si smarrisce. Pare di assistere a una silente deflagrazione, in cui un magma livido erutta dalle viscere della terra e si riversa nel cielo con tutta la sua potenza distruttrice e rigeneratrice. E come l'araba fenice, alla fine la natura, annichilita e vilipesa, si risveglia e risorge dalle ceneri.
Chiara Manganelli
sabato 18 settembre 2010
“DESERTI DI PIETRA” DI SILVIO ZANGARINI
Silvio Zangarini ci conduce in un universo onirico fatto di luci e ombre, di ciottoli e strade, di suggestioni emblematiche e misteri seducenti.
Il sorprendente equilibrio compositivo delle sue opere non è mai statico, bensì estremamente dinamico; è frutto di una doviziosa ricerca stilistica e di un raffinato gusto estetico, e sgorga da un fermento vibrante e vitale, accompagnato da un'armonia primordiale e perfetta che sa svelare la bellezza contenuta in nuce in tutte le cose, carpita dall'occhio dell'artista nel momento in cui essa si palesa.
Le sue fotografie, se guardate in modo frettoloso e superficiale, potrebbero apparire come mere riproduzioni tout court di alcune piazze di Torino, e invece racchiudono un livello di lettura molto più sottile e profondo: si addentrano nelle viscere di questa città ambivalente e affascinante riuscendo a cogliere la sua essenza nascosta.
Zangarini usa il linguaggio apparentemente ortodosso delle immagini e lo rimpasta, lo plasma con la materia impalpabile di cui sono fatti i sogni, facendosi aedo di una semiologia del tutto personale e originale, che parte dal mondo fenomenologico per raccontare i misteri affondati nei territori segreti dell'anima umana. Un viaggio duplice, quindi, non solo urbano e tangibile ma anche individuale e trascendente, che si snoda alla ricerca di se stessi nel mondo, in virtù di un rapporto inscindibile con lo spazio fisico che la nostra anima abita, ma che oltrepassa la realtà transeunte per avventurarsi altrove, dove non esistono né spazio né tempo, in un luogo sospeso e surreale.
Lo scatto della sua macchina fotografica, fermando l'attimo, ne sottolinea sia la sua intensità unica, eterna e irripetibile, sia il suo inesorabile fluire verso uno spazio temporale e mentale che ancora deve compiersi, e che attende altri attimi affinché l'ordito sfaccettato di una storia possa essere tessuto.
“Deserti di pietra” è dunque uno splendido encomio alla bellezza elegante e notturna di Torino, ma anche e soprattutto alla bellezza che appartiene a ognuno di noi, alla vitalità e alla curiosità che ci permettono di ritrovare l'Ulisse che dimora dentro la nostra anima. Il viaggio è un istinto ineludibile e ontologico, così come è ineludibile l'intrinseca dicotomia tra movimento e stasi, che ci spinge, da una parte, a dispiegare le vele per andare alla ricerca di ciò che è ignoto e anagogico, e, dall'altra, a custodire e preservare un porto a cui poter attraccare, un'Itaca a cui poter fare ritorno in caso di burrasche e tempeste, perché il senso della nostra identità è sempre indissolubilmente ancorato a tempi e a luoghi, e si può partire solo sapendo che si può tornare da qualche parte per ritrovare qualcosa.
UN OSSIMORO PITTORICO: IL VERISMO INTIMISTA DI ANTONIO SGARBOSSA
Non c'è via più sicura per evadere dal mondo che l'arte, ma non c'è legame più sicuro con esso che l'arte
J.W Goethe
La produzione pittorica di Antonio Sgarbossa si colloca in un territorio ambivalente, al confine tra un'oggettività naturalista, che ricalca una logica inferenziale e positivista, e una soggettività estremamente moderna, polifonica e “fotografica”. Mescolando sapientemente elementi “veristi” con scorci e sguardi squisitamente unici e personali, i dipinti dell'arista veneto fluttuano tra sogno e realtà, elargendo allo spettatore un punto di vista cangiante e originale, mai banale e scontato. E se è vero, come asserì Gilbert Keith Chesterton, che “la dignità dell'artista sta nel suo dovere di tenere vivo il senso di meraviglia nel mondo”, Sgarbossa adempie a questo compito in maniera esemplare.
A una prima analisi i suoi quadri sembrano raffigurare la realtà, ma, pur essendo evidente che nella sua poetica echeggiano risonanze di matrice realista e naturalista, è altresì innegabile che la sua ricerca artistica non si limita a una mera riproduzione sic et simpliciter del mondo fenomenico.
Osservando i paesaggi urbani di Sgarbossa si ha la sensazione di assistere a un ossimoro concettuale e percettivo: ciò che viene rappresentato, infatti, è incontrovertibilmente reale e tangibile, apparentemente oggettivo e inequivocabile, ma lo sguardo profondo e acuto di questo artista riesce a cogliere l'inconsueto racchiuso e raggomitolato dentro il consueto, l'eccezionale avviluppato nelle pieghe riottose della normalità, svelando e mostrando, attraverso tagli prospettici arditi e inesplorati, la bellezza tacita e latente delle cose, che quasi mai percepiamo, perché nascosta dinnanzi a noi. James Hillman affermò che il modo migliore per occultare qualcosa è proprio questo: metterla in evidenza, sotto gli occhi di tutti, cosicché, paradossalmente, essa scompaia, diventi invisibile per i più. Ma non per tutti, non per chi possiede il dono di una rara sensibilità capace di guardare oltre la coltre ingannevole dell'apparenza.
Sgarbossa si fa dunque esegeta e araldo di questa invisibilità per dissotterrarla e renderla visibile e decifrabile, restituendole vita, dignità e splendore, inficiando così il sillogismo, spesso in auge, secondo il quale quello che non si vede non esiste. Ma ci sono innumerevoli modi di percepire la realtà. Qual è, dunque, quello giusto? Diatriba filosofico-epistemologica che logora gli intelletti dalla notte dei tempi. Verrebbe da dire che l'unico modo giusto, o meglio, l'unico modo rilevante, sia il proprio, eppure anche questa tesi risulta farraginosa e insoddisfacente. E dove alberga la realtà? In quale degli infiniti sguardi possibili? In tutti e in nessuno. Ma in questa sede, più che considerare ciò che è giusto o sbagliato, ci interessa esplorare la portata estetica, creativa e simbolica che l'espressione artistica sottende. E nel caso di Antonio Sgarbossa la capacità di attribuire un senso sorgivo al mondo immanente si coniuga con una maestria tecnica e cromatica che suscita stupefacente appagamento estetico. L'uso delle luci e delle ombre ci ricorda i prodigiosi virtuosismi caravaggeschi, e l'impiego di colori soffusi e sfumati, che digradano dolcemente uno nell'altro senza mai dar luogo a violente fratture percettive, palesa un intimismo profondo e pregnante, potente ma discreto, e dona risalto e significanza ai particolari; è proprio qui che emerge maggiormente l'impronta verista di Sgarbossa, ma il suo è un verismo soggettivo, quasi onirico, perché la sua è una pittura interiore, che si esprime attraverso due processi embricati e interdipendenti: da un lato l'interiorità del soggetto è proiettata sul mondo e dall'altro il soggetto introietta la realtà per trasformarla incessantemente in rappresentazioni peculiari e personali. Il risultato è un'alchimia raffinata e sorprendente.
Merita di essere menzionato anche l'altro grande filone della produzione di Sgarbossa: le figure femminili.
Le donne rappresentate dall'artista posseggono un quid che le rende creature al contempo eteree e carnali, sensuali e anagogiche, senza che tali parossismi risultino mai surrettizi. Le pose e le posture dei loro corpi rimandano a qualcosa che sta per accadere o è già accaduto, creando un dinamismo pulsante e palpitante. Queste donne, catturate nella sospensione fugace di un attimo, stanno intessendo la propria storia, calcano il palcoscenico della propria esistenza, e non possono e non devono fermarsi, perché l'immobilità è annichilimento e morte. Sgarbossa riesce a cogliere e a rendere magistralmente questo flusso vitale in eterno divenire, sottolineando l'unicità irripetibile di ogni essere vivente e perlustrando l'intrinseca bellezza e la suadente armonia proprie di ogni corpo e di ogni anima.
L'erotismo che talvolta permea i suoi quadri non è mai ingombrante e pleonastico; è pacato, lieve, velato, ed è un modo per celebrare la bellezza ontologica racchiusa in ogni donna, la sua sensualità atavica e ancestrale, che a volte si evince da un dettaglio impercettibile: un gesto, uno sguardo, un movimento. Tutto sta nel saperlo individuare e comprendere, per poi dargli voce.
L'arte vuol sempre irrealtà visibili
J.L. Borges
Chiara Manganelli
venerdì 27 agosto 2010
IL NATURALISMO INFORMALE DI RODOLFO TONIN: LA SILENZIOSA PRESENZA DELL'INEFFABILE
“Sono costretto a continue trasformazioni, perché tutto cresce e rinverdisce. Insomma, a forza di trasformazioni, io seguo la natura senza poterla afferrare, e poi questo fiume che scende, risale, un giorno verde, poi giallo, oggi pomeriggio asciutto e domani sarà un torrente.”
Claude Monet
Rodolfo Tonin, promosso da Falpa Promozione Arte, possiede un ricco e prestigioso curriculum, annoverando al proprio attivo numerose mostre personali e collettive, in Italia e all'estero.
La sua è una pittura squisita, peculiare e poliedrica, densa di spunti e risonanze, che attinge da modelli e correnti artistiche del passato per arrivare a rielaborare uno stile personale unico e in continua evoluzione, ma che richiede diversi e variegati livelli di lettura.
Egli eredita dal naturalismo lombardo del XIX secolo il respiro ampio e grandioso di una natura esplorata “en plein air”, insieme all'uso magistrale della luce e a un cromatismo scompigliato, impastato e sfumato, in grado di suscitare balzi sinestesici sorprendenti e suggestivi.
Se è vero, come affermò Friedrich Schelling, che “la natura è vita che dorme”, la pittura di Tonin, in cui domina una sensibilità di tradizione romantica, è in grado di cogliere e restituire appieno il senso di questa sottile e affascinante ambivalenza, riuscendo a trasmettere sia la sensazione di quiete maestosa e dormiente, sia l'intrinseca e vibrante vitalità che essa racchiude “in nuce” .
L'arte può divenire “natura concentrata”, come asserì Honorè de Balzac, solo nel momento in cui sia capace di rinunciare a un virtuosismo vuoto e imparaticcio, finalizzato a una mera emulazione del reale che risulta inevitabilmente micragnosa e al contempo pleonastica, poiché nulla aggiunge e nulla rivela, e, anzi, banalizza e depaupera qualsiasi tipo di ermeneutica e di teleologia “de rerum natura”.
E Rodolfo Tonin, con la sua pittura, riesce brillantemente a compiere questo processo che permette all'arte di trasformarsi, appunto, in natura concentrata.
Nelle trame delle sue tele è intessuta la quintessenza della Natura, che, come in un gioco di scatole cinesi, racchiude correlazioni inaspettate tra significanti e significati, stimolando lo spettatore a forgiare nessi nuovi e inesplorati che conducano a un senso “altro”, adottando modalità d'interpretazione analogiche ed emotive, e oltrepassando i confini dell'ortodossia semantica per approdare, come meta ultima, a carpire e percepire l'ineffabile. E proprio qui sta la valenza profondamente autentica del suo nucleo “impressionista”, che emerge, sul piano estetico, attraverso l'impiego di colori forti e incisivi, di contrasti cromatici, di sapienti alternanze di luci e ombre, e, sul piano concettuale, viene reso con uno stile del tutto singolare, in virtù del quale il mondo reale viene rappresentato non in quanto entità fenomenologica sovraordinata, ma come fosse lo specchio di un mondo interiore di immensa portata e dotato di sfaccettature dinamiche, temerarie e visionarie.
Nei quadri di Rodolfo Tonin la figura umana quasi non appare, ma, anche se ciò può sembrare un paradosso, essa è invece poderosamente presente, seppure in modo silente e implicito. L'uomo è parte integrante della natura e dei suoi cicli; la sua appartenenza al mondo naturale è radicata e atavica, ed emerge grazie alla soggettività imprescindibile dello sguardo sulle cose, che proietta su questa natura una compagine incommensurabilmente assortita di sentimenti e sensazioni.
La potenza espressiva di questo raffinato artista si esprime mediante una tecnica che utilizza campiture ampie e spaziose, e che talvolta “de-forma” prospettive e rapporti volumetrici per costruire sembianze inconsuete, cangianti e impetuose, adoperando il colore in maniera materica, come fosse sostanza viva e pulsante da far gocciolare, da distendere con la spatola, da comprimere, raggrumare, graffiare o declinare in illimitate possibilità tonali. Tonin ricalca così le suggestioni espressionistiche dell'astrazione informale per creare un impatto emotivo immediato e “violento”, quasi drammaturgico, dove l'effetto cromatico prevale sulla forma, pur senza mai sacrificare l'equilibrio estetico e compositivo. E la forma viene trascesa per addentrarsi in dimensioni semiologiche più complesse e articolate, che si esplicano per mezzo di traslitterazioni da un universo di segni a un altro.
Altre volte, invece, i suoi dipinti trasmettono un senso di freschezza giocosa e gioiosa, dove gli elementi naturali si intersecano e si incontrano per plasmare contrappunti delicati e armoniosi, corollari di polifonie cromatiche dense di dolcezza, e dove la forma non viene “de-formata”, ma esaltata nella sua essenzialità, come se contenesse nella sua foggia una perfezione ontologica che non ha bisogno di ulteriori specificazioni e manipolazioni. In queste opere viene sottolineata la vis raffigurativa dell'eidos (dal greco: forma), intesa secondo l'accezione che possedeva nella filosofia platonica, e dunque concepita come sembianza non solo esteriore, ma come entità che include l'essenza profonda delle cose.
Qui la natura viene spesso rappresentata in tutta la sua eleganza discreta e silenziosa, che ne risalta la dimensione assoluta e quasi atemporale, e il ritmo delle stagioni è scandito in modo lieve e soffuso, talora con velata e mesta malinconia.
Nel complesso lo stile compositivo di Tonin sembra dunque incarnare l'irrisolvibile tensione delle pulsioni umane, che connota l'intero avvicendarsi dell'esistenza, perennemente in bilico tra dicotomie che fondano i presupposti della vita stessa.
Così l'uomo, nel suo viaggio incessante verso di sé, attraversa buio e luce, dolcezza e violenza, dinamismo e stasi, e, soprattutto, può ritrovare il senso profondo della propria “fusis” (dal greco: natura) nel digradare dolce di una collina, nell'inquietudine brumosa di un cielo, nel serpeggiare di un greto, nelle fronde lussureggianti di un albero, nel bianco opalescente di un paesaggio innevato. Il susseguirsi ciclico degli eventi naturali rispecchia quindi la circolarità ineludibile dell'esistenza umana: sempre uguale ma sempre diversa.
"Un prodotto organizzato dalla natura è un prodotto dove tutto è reciprocamente fine e mezzo; in esso, nulla d'inutile, privo di scopo, o dovuto ad un cieco meccanismo naturale."
Immanuel Kant
Chiara Manganelli
giovedì 27 maggio 2010
MANUELA MARUSSI, I FIORI ALCHEMICI DEL GIARDINO DELL'ANIMA
Manuela Marussi esordisce come pittrice nel 2000, e in questi dieci anni il suo curriculum si è arricchito di numerose e prestigiose esposizioni personali e collettive.
Questa mostra trae ispirazione da un laboratorio che l'artista ha gestito per un anno con alcuni bambini di una scuola materna. Tale esperienza ha permesso al “giardino incantato” della pittrice di sbocciare e fiorire, portando alla luce il nucleo profondo della sua “Bambina magica”, solare, divina e in armonia con il Tutto, e liberando la sua forza femminile, pregna di potenza creativa e generatrice. In quest'ottica la pittura diventa mezzo espressivo e taumaturgico per far risuonare nell'osservatore emozioni profonde e sottili, e per condurlo alla scoperta della propria essenza autentica e nascosta, che, una volta riconosciuta e accolta, vivifica e rivela i misteri arcani e stupefacenti dell'esistenza.
Il bambino rappresenta un ponte tra la terra e il cielo, tra l'immanente e il divino. Quando ci specchiamo nella purezza intonsa, incantata e giocosa dei bambini, possiamo ritrovare il nostro giardino interiore, in cui sono conservati i frammenti della nostra fanciullezza, troppo spesso assopita o dimenticata.
I quadri di Manuela Marussi sono ricchi di simbolismi e di riferimenti alchemici e spirituali, e in essi predomina sempre una dolcezza estrema, che si manifesta anche attraverso l'uso di delicati colori pastello e di raffinate sfumature cromatiche.
Osservando alcuni suoi dipinti, come “Abbandono” (olio su tela, 90x30, 2009), “Il dono di sé” (olio su tela, 50x70, 2010) e “Semi” (olio su tela, 30x60, 2010), si ha la sensazione di essere trasportati in una dimensione rarefatta e assoluta, in cui la danza della Vita esplode, si espande e risuona, e si viene guidati in un universo onirico fatto di percezioni dolci, ineffabili e vibranti, dove l'armonia diviene musa ammiccante e seducente del nostro Io, in virtù di un processo graduale di autoconsapevolezza che ci porta oltre la realtà apparente, per giungere a sentire e com-prendere ciò che ci circonda. La chiave di svolta è la fusione con l'alterità, che si ottiene attraverso l'Amore incondizionato, unica forza che può farci ritrovare noi stessi e gli altri, in quella terra sconfinata e piena di energia vitale che è sepolta dentro di noi, e di cui a volte perdiamo le tracce, perché ci ostiniamo a cercarla altrove, in luoghi impervi e scoscesi, mentre basterebbe semplicemente scavare, perlustrare e scendere giù, fino in fondo, immergendoci nei nostri abissi interiori senza paure, remore e menzogne.
giovedì 1 aprile 2010
SI PUO' - IL DILEMMA DI UN UOMO E UNA DONNA - OMAGGIO A GIORGIO GABER
La canzone “Il dilemma”, emblema romantico di un amore struggente, tragico e impossibile, fu affidata nel 1981 all'interpretazione di Alloisio, e proprio da qui nasce l'idea di questo spettacolo, che si snoda, appunto, sul filo degli amori impossibili: l'amore per una donna, per un ideale, per un sogno, per una politica che si occupi davvero della “res pubblica”, per una giustizia sociale fondata su basi morali e filantropiche, per la propria interezza di uomo.
Gaber fu un artista unico, perché affrontò sia tematiche inerenti la dimensione sociale, politica e collettiva, sia questioni riguardanti la sfera ontologica, emotiva e individuale, con la stessa eccezionale capacità di analisi, sviscerando questi temi con un'intelligenza, una sensibilità e un acume rari, e riuscendo a coniugare insieme sarcasmo, autoironia, umorismo, sdegno, invettiva e solennità, attraverso uno sguardo sempre estremamente lucido e penetrante sull'universo umano in tutte le sue sfaccettature. Sapeva strappare incontenibili risate, talvolta amare, e allo stesso tempo sapeva far riflettere in modo profondo, mai banale, svelando l'essenza delle cose, al di là della superficialità e del trito e vuoto buon senso comune, oltre ogni etichetta, ogni moda e ogni faziosità.
La magnifica serata è stata orchestrata in modo da alternare canzoni meno note al grande pubblico, come, ad esempio, “ I reduci”, “Ora che non son più innamorato” “Le elezioni” e “L'odore”, a brani celeberrimi, come “La libertà”, “Lo shampoo” e “Barbera e champagne”, mescolando sapientemente pezzi commoventi e densi di pathos, come “L'amico” e “Quando sarò capace di amare”, a pezzi esilaranti e dissacranti, come “La strana famiglia” e “Madonnina dei dolori”, fino a giungere all'epilogo del percorso artistico del Signor G., con “Non insegnate ai bambini”, meraviglioso testamento pedagogico che Gaber scrisse e interpretò poco prima della sua scomparsa.
E ad appassionare ancor più, i gustosi aneddoti di vita vissuta, raccontati da Giampiero Alloisio, che lavorò al fianco del Signor G. per ben sedici anni.
Gli artisti si sono dimostrati all'altezza di una prova per nulla semplice: far rivivere l'eclettico e geniale Giorgio Gaber. E sono stati davvero impeccabili, poliedrici e versatili, intensissimi nell'interpretazione, in grado di emozionare e coinvolgere gli spettatori, e di ricreare quasi la stessa atmosfera potente, incisiva e pregnante che Gaber sapeva elargire al proprio pubblico.
Un omaggio, dunque, ben congegnato e perfettamente riuscito, che ha reso onore a uno dei più grandi artisti del nostro tempo.
Chiara Manganelli
L'ESPRESSIONISMO METAFISICO DEL SENTIMENTO DI MONICA MAFFEI: SGOCCIOLATURE DI POLIFONIE EMOZIONALI
“Non si vede bene che con il cuore, l'essenziale è invisibile agli occhi.”
Il Piccolo Principe, A. de Saint-Exupéry
Monica Maffei, distribuita in esclusiva da “Falpa Promozione Arte”, è una pittrice dotata di rara sensibilità, che attinge la propria ricchezza espressiva da varie esperienze umane e artistiche, per giungere a un percorso personale originale ed estremamente interessante, in continua evoluzione.
L'arte di Monica Maffei è un luogo evanescente e potente, a tratti diafano e a tratti acceso, dove risuona l'eco accattivante dell'ineffabilità; è, come disse Charles Baudelaire “una magia suggestiva che accoglie insieme l'oggetto e il soggetto”, e che innesca una profonda e irreversibile trasformazione della realtà, schernendo sottilmente l'illusione positivista che per secoli ci ha fatto credere che possa esistere un “oggetto in sé”, indipendentemente da colui che lo osserva e lo percepisce. Le opere della pittrice varesina sono cariche di intuizione, di pathos, di slancio, e interpretano il mondo attraverso un vivido ed “epidermico” processo di identificazione empatica, che, attraverso tele dense di striature e chiazze, concrezioni materiche stratificate, alternanze di vuoti e pieni, viluppi di colori a volte opachi e sfumati, a volte brillanti e sgargianti, ci restituisce una gustosa sintesi ermeneutica e semiologica dei recessi più nascosti dell'Io, resa mediante un simbolismo penetrante che sconfina nell'espressionismo astratto. La sua arte è un crocevia dove si intersecano sinfonie di sentimenti cangianti e sfuggenti che rimbalzano dentro dedali di storie di vita quotidiana, creando affabulazioni ambivalenti, imprevedibili, giocose o malinconiche, generate dall'intimità sfaccettata, misteriosa e caleidoscopica dell'anima umana.
E' necessario soffermarsi e indugiare sulle opere di Monica Maffei affinché esse svelino i loro significati più intensi e profondi. A un' analisi superficiale, infatti, i soggetti rappresentati dalla pittrice possono apparire avvolti da un'atmosfera di impenetrabilità ermetica, come se custodissero un segreto inviolabile e difficilmente comprensibile a una lettura negligente e frettolosa. Ed è proprio così: le figure umane impresse sulle sue tele devono essere decifrate con cura e solerzia; sono latori di enigmi e di scorci di esistenza squisiti e arcani, che si manifestano e si rivelano solo a chi abbia l'audacia e il desiderio di guardare con gli occhi del cuore, e di entrare in risonanza emotiva con essi. Nei volti della Maffei le pupille sono bandoli scintillanti e iridescenti che si dipanano verso l'immensità del cielo, che roteano avanti e indietro tra gli anfratti emblematici del tempo, e traboccano di energia vitale anche quando vi serpeggiano i marchi a fuoco del dolore e dell'inquietudine.
Clement Greenberg affermò che la vera arte deve basarsi sul sentimento, e Monica Maffei incarna perfettamente questa concezione dell'arte, lambendo le emozioni che si nascondono dentro le emozioni, in un gioco di scatole cinesi che si schiudono come boccioli alla luce. La luce è lo sguardo della pittrice, di donna, prima ancora che di artista, che sa scorgere oltre le maschere dell'apparenza, che sa sfogliare con delicatezza e acume le pagine dei libri scritti tra le pieghe della pelle delle persone che incontra, e sa farne opera d'arte, trasponendo sulla tela la passionalità sommessa di coloro che si muovono nel mondo in modo compito e discreto. La sua è un'azione di “archeologia umana” finalizzata a recuperare il magma che pulsa sotto la cenere, per ritrovare ciò che giace sepolto dal tempo e dalla frenesia convulsa della vita moderna, dando voce, attraverso il segno pittorico, al fragore del silenzio, ed esprimendo con le immagini quello che la parola riesce appena a sfiorare e abbozzare.
Nei suoi quadri c'è il profumo di uno stile informale che ricorda alcuni artisti del Color Field Painting come Jules Olitski, Kennet Noland e Mark Rothko, e in molte delle sue tele l'uso del dripping richiama l'importanza dell'atto inconscio nella creazione artistica, rimandando ai fondamenti concettuali dell'Action Art di Jackson Pollok. L'impiego di spatolate verticali crea suggestive texture di diversi colori o dello stesso colore declinato in differenti intensità e sfumature, che elargiscono un peculiare effetto di distorsione della profondità prospettica, e che hanno come conseguenza l'amplificazione della dimensione emotiva del soggetto rappresentato.
Ma Monica Maffei non è un'artista informale pura: i suoi dipinti sono quasi sempre popolati da esseri umani, spesso donne, immersi in un'atmosfera rarefatta, sensuale e trasognante. Dunque il suo espressionismo è in parte astratto, in parte figurativo, ha origine dalla sua anima per poi immergersi nell'anima dell'oggetto/soggetto osservato, ed è metafisico (sia in senso pittorico, sia in senso filosofico) perché oltrepassa i limiti della realtà transeunte allo scopo di scandagliare il nucleo arcano ed esoterico dei sentimenti, custodito nell'inconscio individuale e collettivo, che traspare da un guizzo negli occhi, da un gesto, da un'espressione del viso, da una posa del corpo.
Nella pittura della Maffei pare sanarsi l'annoso dualismo tra realtà noumenica e realtà fenomenica: il noumeno qui non è l'idea platonica, intelligibile nella sua purezza solo dall'intelletto capace di trascendere il mondo tangibile, e non è neppure ciò che Kant definiva un tentativo da parte del pensiero di rappresentare ciò che è inconoscibile. Il noumeno della poetica dell'artista non è un attributo della mente razionale, bensì un'essenza primordiale, una struttura fondamentale ed eterna degli esseri che però prende vita dall'emozione, e che supera questa antica dicotomia perché la realtà noumenica non si colloca al di fuori della realtà fenomenica, ma dentro di essa, ad un livello diverso e maggiore di profondità. Il “noumeno”, dunque, è un principio “sentimentale” e non mentale, e non sussiste su un piano differente rispetto al fenomeno. Per Platone solo le idee (noumena) erano conoscibili, mentre per Kant solo i fenomeni, ma in entrambi i casi il dualismo appariva insanabile e insolubile. La metafisica intesa come “scienza della cosa in sé” è sempre stata fonte di accese diatribe filosofiche, poiché si è sempre posto come assunto il pensiero, che, in quanto tale, non può divincolarsi da se stesso e dalla propria autoreferenzialità, e proprio da ciò scaturiva il sillogismo che conduceva all'antinomia. E se ciò che esula la conoscenza non è neppure concepibile, la sua stessa esistenza risulta del tutto indifferente e irrilevante.
Ma Monica Maffei pare dirci che il paradigma che dobbiamo assumere per conoscere e comprendere sia i fenomeni, sia i noumena (cioè la natura essenziale delle cose), non è la ragione, incapace, appunto, di valicare i propri confini, ma l'emozione empatica e intuitiva, che non ha bisogno di capire il mondo in maniera dialettica e dialogica, perché sente in virtù di processi analogici, e così può travalicare se stessa e può portare alla “com-passione”(intesa secondo l'accezione adottata nei poemi omerici). E la pittrice pare dirci anche che non dobbiamo cercare questa essenza fuori di noi e fuori dalla realtà percepibile, ma dentro di noi e dentro il mondo in cui viviamo, imparando a guardare al di là dell'apparenza, negli abissi incommensurabili del cuore.
La natura è spesso nascosta, qualche volta sopraffatta, molto raramente estinta.
Francis Bacon
Chiara Manganelli
ANTONIO SGARBOSSA TRA SOSPENSIONE ONIRICA E “REALISMO SOGGETTIVO”
“L'unica vera sorgente dell'arte è il nostro cuore, il linguaggio di un animo infallibilmente puro. Un'opera che non sia sgorgata da questa sorgente può essere soltanto artificio”
Caspar David Friedrich
"Una piccola ala di muro gialla, di cui non si ricordava,
era dipinta così bene da apparire, a guardarla isolatamente,
simile ad una preziosa opera d'arte cinese,
di una bellezza che basta a se stessa.”
Marcel Proust, À la recherce du temps perdu, La prisonnière
“Falpa Promozione Arte” viene fondata negli anni '50 da Guido Gori, e nasce come azienda produttrice di oggetti sacri e cornici. A partire dagli anni '60 inizia a valorizzare il lavoro di alcuni artisti locali, per poi espandere ed ampliare sempre più il proprio interesse per il mercato dell'arte.
L'azienda, attraverso canali divulgativi quali pubblicazioni editoriali, programmi televisivi, partecipazione a fiere e organizzazione di mostre, promuove numerosi artisti contemporanei di prestigio, tra cui: Rodolfo Tonin, Ciro Palumbo, Alfio Presotto, Luca Guizzardi, Antonio Sgarbossa, Claudio Rolfi e Monica Maffei.
L'obiettivo è quello di sensibilizzare il grande pubblico e di sviluppare in Italia e all'estero un mercato teso a sostenere una capillare diffusione di opere d'arte che rappresentino e rispecchino le tendenze della pittura contemporanea.
Un ambizioso progetto di moderno “mecenatismo”, dunque, che viene realizzato in virtù di uno sguardo critico e attento all'evoluzione del panorama artistico dei nostri giorni, e che deve a Sergio Gori la propria linfa vitale.
Tra i vari connubi che “Falpa Promozione Arte” ha intrapreso in questi anni, uno dei più fertili e proficui è senz'altro quello con Antonio Sgarbossa.
Nelle opere dell'artista veneto si assiste a un'analisi minuziosa della realtà, a una solerte e doviziosa celebrazione del dettaglio in quanto simbolo di una dimensione psicologica soggettiva, sospesa in una temporalità squisitamente intima ed evocativa. Il dettaglio, oltre ad essere un significante, e dunque una forma dotata di una propria estetica, è anche significato e rimanda a un contenuto, a una semantica che si articola attraverso l'occhio di chi guarda e vive la realtà. E grazie a un rapporto inscindibile e costante di presupposizione reciproca tra l'aspetto formale e l'aspetto contenutistico racchiuso nei particolari del reale, si definisce e si delinea una delle peculiarità del segno pittorico di Antonio Sgarbossa: l'universo soggettivo.
Le sue opere si fondano su una rara e precisa padronanza della tecnica, e su un “realismo” che, ad un'analisi superficiale, può apparire una mera, seppur ineccepibile, riproduzione della realtà tout court. Invece, a un'indagine più attenta, ci si accorge della portata del linguaggio espressivo dell'artista, che mira a dare risalto non all'oggetto in sé, ma all'oggetto in quanto specchio versatile del mondo interiore dell'osservatore. Così la realtà acquista pregnanza, vita, senso e pulsazione.
Sgarbossa è fedele ad un uso della prospettiva che si rifà agli studi dei grandi maestri dei sec. XV e XVI, perchè, come affermò Leonardo da Vinci,“sempre la pratica dev’essere edificata sopra la buona teorica, della quale la prospettiva è guida e porta, e senza questa nulla si fa bene”. Ma il punto di vista presente nei dipinti dell'artista veneto è originale e inconsueto, quasi “fotografico”, e i tagli prospettici non sono quelli “canonici”, bensì risultano arricchiti da innumerevoli ventagli di sguardi possibili, che scompaginano le visuali consuete e carpiscono le infinite sfaccettature dell'universo immanente.
Nelle opere di Sgarbossa vengono spesso raffigurati ambienti urbani in cui la ricerca volumetrica appare impeccabile e armoniosa, e in cui la composizione delle forme e degli spazi crea atmosfere evanescenti ma nitide, silenziose ma eloquenti, surreali ma tangibili, dense di un'eleganza compita e discreta, e immerse in un tempo onirico e irreale, dove la presenza umana non sempre è evidente: talvolta è quasi nascosta, eppure ineludibile.
Nell'uso di luci soffuse, di colori tenui, sfumati e umbratili, e in talune scelte stilistiche e compositive, i suoi paesaggi e i suoi ambienti urbani possono rievocare l'opera di alcuni esponenti della pittura olandese del '600, come Jan Vermeer, e della pittura romantica inglese e tedesca (William Turner, John Constable, Caspar David Friedrich).
Un altro filone estremamente interessante della ricerca artistica di Antonio Sgarbossa è quello della rappresentazione di figure umane, in particolare femminili, in cui la dimensione “intimista” acquista ancor più rilevanza. Qui l'uso raffinato di giochi di luci e ombre e l'impiego di posture ammiccanti e sensuali, che ricordano Edgar Degas, permettono di dare enorme risalto alla sfera emotiva, conferendo ai soggetti una sorta di estraniato e diafano lirismo, che a volte assume i contorni di un'elegia struggente e malinconica, dispiegata nello spazio fugace di un attimo impalpabile e caduco eppure eterno, avviluppato a rapsodiche e misteriose attese. Le donne di Sgarbossa, affondate in un'incertezza mesta e trasognata, somigliano alle donne ritratte dal celebre Edward Hopper, ma appaiono più risolute e dinamiche rispetto a quelle che popolano le tele dell'artista americano. Nei dipinti di Sgarbossa non si percepiscono né rassegnazione, né dolorosa solitudine; al contrario: vi pulsa e vi pullula la vita. L'apparente immobilismo, in realtà, sottende l'idea del movimento: è un preludio, non una condizione inderogabile, e rassomiglia più a un raccoglimento che precede un'azione e ne suggella l'inizio o la continuazione, che a uno stato di rinuncia e abbandono. E l'erotismo velato di cui sono permeate queste opere sottolinea un fermento in nuce, che traspare dalle pose e dai gesti dei corpi, e che comunica la tensione alla vita generata dal tempo infinito di un attimo.
Chiara Maganelli
mercoledì 25 novembre 2009
CLAUDIA GIRAUDO, IL DAIMON, MENTORE DEL FUOCO DELL'ANIMA
“Quando tutte le anime si furon scelte le vite, nell'ordine del sorteggio si avviarono a Lachesi; e questa a ciascuno dava a compagno il demone che si era scelto, quale custode della vita e adempitore della sorte prescelta. Il quale, innanzitutto, conduceva l'anima da Cloto, a far confermare, sotto la mano di lei e il volgersi del giro del fuso, il destino che nel sorteggio quegli si era prescelto; e toccata questa, lo conduceva poi al filo di Atropo per fare immutabile il destino una volta filato; di qui, senza voltarsi, andava ai piedi del trono di Ananke, e passato attraverso quello e passati anche gli altri, tutti insieme si erano avviati alla pianura del Lete, attraverso una terribile calura e arsura, chè quel piano era privo di alberi e di vegetazione della terra. Fatta già sera, essi si erano attendati presso il fiume Amelete, la cui acqua nessun recipiente è buono a contenere. Tutti dovevan per forza bere una certa misura di quell'acqua, ma quelli non preservati da prudenza ne bevevano più della misura, e chi man mano vi beveva si scordava tutto. Messisi a dormire e fatta mezzanotte, scoppiò un tuono e un terremoto, e di là d'un tratto furon, chi qua e chi là, trascinati su alla nascita, filando veloci come stelle cadenti. Lui, Er, era stato impedito dal bere dell'acqua; e in che modo e come fosse giunto al corpo non sapeva, ma d'un tratto, riaperti gli occhi, si era visto al mattino giacente sopra la pira.
E così, o Glaucone, questo mito si è salvato e non è perito, e potrà salvare anche noi, se gli crediamo; e noi passeremo felicemente il Lete e non saremo contaminati nell'anima. Ma se a me vorremo dar retta, ritenendo l'anima immortale e capace di reggere a tutti i mali e a tutti i beni, ci atterremo sempre alla via che va in alto e praticheremo in ogni modo giustizia con saggezza, sì da esser cari a noi stessi e agli Dei finchè restiamo qui in terra, e dopo, che ne avrem riportato i premi che i vincitori raccolgono, e da trovarci bene sia qui, sia nel viaggio millenario di cui abbiamo discorso.”
Platone, La Repubblica, X, 620-621
Nelle opere di Claudia Giraudo crepita, tra bianchi spazi siderali, un fuoco primitivo e primordiale che, attraverso incessanti metamorfosi e intrepide combinazioni di materia e colore, si trasforma in eidos (forma) raffinata, potente, preziosa, ammiccante e pregnante. Questa forma suggella e custodisce segreti ancestrali, incarna l'idea di se stessi, è “la causa per cui un ente possiede una certa proprietà” (Aristotele), e rappresenta un principio attivo di distinzione dell'essenza con forti attributi ermeneutici oltre che estetici. Essa è un'immagine fondamentale, perfetta (cioè compiuta, secondo l'etimologia latina del termine), che va al di là della precarietà e della dimensione spaziotemporale, perché è.
“Io non mi evolvo, io sono” affermò Pablo Picasso. Ed è proprio questo concetto che si percepisce osservando i dipinti della pittrice torinese: le figure trasognanti e impalpabili che popolano e abitano le sue tele sono latori eterei, diafani ed evanescenti, dotati di una potenza incisiva e comunicativa sorprendente, proprio perché sono, perché dimorano in una dimensione fluttuante, irreale e onirica, in uno spazio sospeso, dove non esiste il doloroso e tumultuoso fluire della vita terrena, ma tutto è, e nulla, dunque, (si) succede e si attende.
I volti raffigurati nelle tele della Giraudo sono “stelle di neutroni” dense all'ennesima potenza, carichi di incommensurabile energia; in essi tempo e spazio collassano e implodono, e sfuma la tagliente, ineluttabile e inesorabile linearità dell'esistenza.
Accanto a questi volti appaiono, come alter ego, piccoli animali che fungono da spirito guida: sono i daimon, manifestazioni dell'anima nell'universo fisico, che accompagnano l'individuo nelle sue peregrinazioni terrene, proteggendolo e guidandolo alla ricerca della sua essenza più intima e profonda, della sua vis ontologica, restituendo un costrutto semantico all'apparente casualità caotica della vita umana.
Il daimon incarna ciò che in noi è ineludibile e ineffabile, è un emblema teleologico che elargisce significanza, identità, unicità e potere all'individuo. E' un principio vitale che compare in molte antiche culture del nostro passato. E' un essere che appartiene alla sfera del mito, che scompagina la sistematicità della nostra esistenza e graffia la superficie delle cose per svelarne il senso recondito.
L'albero della Cabala della tradizione mistica ebraica affonda le proprie radici nel cielo: così la nostra anima, che, restia a calarsi e immergersi nel mondo contingente, viene aiutata, in questo difficile processo, dal suo daimon.
Ogni essere, per ananke (necessità), ha un percorso da compiere dove “tutti gli eventi formano un'unità e sono per così dire intessuti insieme” (Plotino), e sceglie un paradeigma, cioè un modello, un'immagine di vita. A ogni anima, secondo il mito platonico, Lachesi affiancava un daimon, “perché le facesse da guardiano durante la vita e adempisse il destino da lei scelto”.
Nelle sue tele la pittrice torinese non intende compiere un'indagine sul volto umano rifacendosi alla tradizione della Fisiognomica classica, che vede i primi albori in Leonardo da Vinci, per poi giungere alle distorsioni aberranti della frenologia del XIX secolo. Non vi è, dunque, l'intenzione di perlustrare i tratti somatici di un individuo per sottolinearne le peculiarità psicologiche e sociali, ma, invece, si vuole elevare l'essere umano a simbolo di perfezione e Bellezza, decontestualizzandolo dal mondo fenomenico a cui appartiene.
Le sue opere, ricche di elementi che rimandano al Realismo magico, non raffigurano delle persone immerse nel loro scenario contingente, ma dei messaggeri - spesso bambini - che, con la loro purezza di esseri divini, stabiliscono una connessione tra il mondo dello spirito e il mondo della materia.
Qui l'immagine si trasforma in icona, e il ritratto diviene simbolo di significati nascosti che vanno oltre l'immanenza. Perché solo superando la propria dimensione soggettiva l'individuo può esperire forme di sé più segrete, alte, imprevedibili e stupefacenti.
Il travestimento assume, quindi, una funzione di nobilitazione, è uno stratagemma per impreziosire l'essere umano e al contempo spogliarlo dei propri abiti consueti, affinché possa scardinare le categorizzazioni soffocanti e spezzare gli schemi limitanti del proprio Io, e accedere così al proprio nucleo essenziale originario. E' importante comprendere che, nel momento in cui viene spogliato o abbigliato con vesti di diversa foggia, l'individuo trascende se stesso, e in questo modo varca i propri confini materiali, supera le dicotomie, i conflitti, la separatezza tra sé e l'Universo, per giungere a una dimensione superiore, ritrovando nell'Unità e nella Totalità la propria natura più profonda.
Claudia Giraudo porta questi concetti sulla tela attraverso un uso poderoso del colore bianco e di toni chiari, di giochi di luci soffuse e ombre delicate, e mediante sfondi materici e informali, che richiamano l'idea dell'indifferenziazione primordiale. Su questi sfondi talvolta appaiono collage di lettere, che sono delle tracce, dei segni del nostro passaggio nel mondo tangibile, per ricordarci che è possibile trascendere noi stessi solo riconoscendoci, partendo dal nostro “destino” e dalla nostra storia, orma indelebile che lasciamo in eredità ai posteri. E srotolando e dipanando la linea temporale delle altrui esistenze, possiamo trovare il bandolo della nostra, sciogliere i nodi interiori che ci intralciano, comprendere chi siamo e da dove veniamo, e sentire l'appartenenza atavica e profonda a un unico percorso universale, che è quello dell'Uomo.
“Nell'evoluzione di tutti gli artisti, il germe delle opere successive è sempre contenuto nelle prime. Il nucleo intorno al quale l'intelletto dell'artista costruisce la propria opera è il suo Io. L'unica influenza che io abbia mai avuto sono io stesso.”
E. Hopper
“Prima ancora della ragione vi è il movimento vòlto all'interno che tende verso ciò che è proprio.”
Plotino, Enneadi, III, 4.6
domenica 15 novembre 2009
MOSTRA DELLA PITTRICE CLAUDIA GIRAUDO
Sabato 28 novembre 2009, a Torino, presso la libreria “Linea 451”, in Via Santa Giulia 40/A , inaugurerà la mostra personale della pittrice Claudia Giraudo “Il sole e la cometa”. In esposizione, fino al 6 gennaio 2010, alcune delle opere più recenti dell'artista torinese.
Alle ore 21.00 verrà presentata una performance teatrale e musicale ideata, scritta, diretta e interpretata da Chiara Manganelli e Luisa Dante. Le musiche sono tratte dalla Suite num 2 per violoncello di J.S. Bach, e verranno eseguite dal violoncellista Alex. Infine sarà offerto al pubblico un piccolo buffet.
Questa mostra rappresenta un ulteriore sviluppo del percorso artistico di Claudia Giraudo. La sua indagine stilistica e concettuale indossa vesti nuove, per giungere a un uso dell'immagine intesa come icona e non come ritratto connotato da precise caratteristiche psicologiche. Nella sua ricerca artistica, dunque, Claudia Giraudo intende elevare la figura umana a simbolo universale e atemporale, per creare un “atto poetico” che trasformi e plasmi una realtà altra, come direbbe Alejandro Jodorowsky.
PROGRAMMA DELLA SERATA
Performance teatrale e musicale ideata per la serata inaugurale della mostra “Il sole e la cometa” della pittrice Claudia Giraudo.
Ideazione e organizzazione evento, testi, sceneggiatura, interpretazione: Chiara Manganelli
Ideazione, regia, interpretazione: Luisa Dante
Costumi e oggetti di scena: La Bottega dell'Attore in ViolaDirezione artistica: Marzia Scarteddu
Interpreti: Chiara Manganelli e Luisa Dante
Musiche tratte dalla Suite num 2 per violoncello di J.S.Bach
Violoncellista: Alex
“Tenebra vi era, tutto avvolto da tenebra,
e tutto era Acqua indifferenziata. Allora
quello che era nascosto dal Vuoto, quell'Uno, emergendo,
agitandosi, mediante il potere dell'Ardore, venne in essere.”
Tratto dai Veda, Nasadiya Sukta (Inno delle Origini), RV X, 129
Da dove abbia origine la creazione dell'universo come lo conosciamo e lo concepiamo, è un controverso mistero su cui l'umanità si interroga da sempre.
Anche l'arte, intesa come atto creativo (oltre che interpretativo) della realtà, è un insoluto enigma seducente.
Questa performance teatrale fornisce allo spettatore alcuni spunti per riflettere e interrogarsi sul potere della creazione, non di un fantomatico dio, ma dell'essere umano.
Il prologo di questo spettacolo è l'Inno alle Origini, tratto dai Veda, antichi testi sacri induisti, che intende descrivere, per analogia, la fase embrionale della genesi artistica. Questo splendido incipit ci porta nell'indifferenziazione, nell'Unità totale, da cui ogni cosa ha origine, ma in cui nulla possiede ancora consistenza e sembianza. Eppure, in questo luogo non-luogo, tutto già esiste in nuce. Come la forma, secondo quanto affermò Michelangelo Buonarroti, è già contenuta nel blocco di marmo, e compito dello scultore è liberarla, togliendo la materia in eccesso, così l'opera d'arte è già presente nell'anima dell'artista, ed egli deve scavare e scandagliare dentro di sé per farla emergere dal Nulla.
Dal Vuoto, dal Nonessere (concetti che non hanno affatto una connotazione dispregiativa e negativa, ma incarnano semplicemente il “preludio” assoluto di ogni cosa), mediante l'Amore, suprema forza creativa primordiale, prende vita il movimento cosmico.
La musica rappresenta questa forza creativa originaria, è l'Armonia che dà al Nonessere l'impulso per divenire Essere, è l'energia palpitante che muta la materia in opera d'arte e l'uomo in artista.
A questo punto la metamorfosi è in atto: le attrici si trasformano, l'una incarnando l'aspetto giocoso, irriverente e irrazionale dell'esperienza artistica, e l'altra la parte ordinatrice e razionale che permette all'arte di diventare intelligibile, e di essere, quindi, non solo urgenza catartica e azione autoreferenziale, ma anche e soprattutto mezzo comunicativo. Questi due aspetti, apparentemente dicotomici, arrivano infine a integrarsi e amalgamarsi attraverso un processo dialogico.
L'artista, dunque, in estrema sintesi, altro non è che un demiurgo, secondo l'accezione platonica del termine: egli è una sorta di artefice divino, una forza cosmogonica che dà forma e ordine alla materia, creando un ponte tra il mondo delle idee e il mondo fenomenico.
E lo spettatore, a sua volta, deve trasformarsi in “attore” affinché l'opera d'arte possa ritenersi compiuta: colui che osserva la creazione artistica non si deve limitare a contemplarla in modo distaccato e distante, ma è chiamato a entrarvi dentro, a specchiarvisi, per scoprire in essa qualcosa di sé e farla propria.
Chiara Manganelli
Per informazioni e contatti:
clodgiraudo@gmail.com
ch.saudade@gmail.com
www.claudiagiraudo.carbonmade.com
sabato 1 agosto 2009
BAMBINA DI IERI, BAMBINA DI DOMANI
Le risate sono candide ragnatele di salsedine che imprigionano l’eternità della notte, per suggellare speranze future che sono già reali in quello spazio recondito e magico che giace sotto la pelle del mondo consueto e conosciuto .
Dedali di languore solcano la sabbia che odora d’oro, e il pulviscolo dei sogni di domani, come stella che dipinga di sfavillanti colori l’oscurità ammaliante della galassia, sparge pioggia di luce iridescente lungo i sentieri del buio immobile.
Nelle mani piccole e goffe stringo tutto ciò che sarà, tutto ciò che ho già vissuto e che vivrò.
La perfezione esoterica del cerchio si compie tra pupille che parlano con il fiato dell’imperscrutabilità apparente. Oracoli di carne e sangue bruciano l’eresia dei dogmi senza bisogno di arroganti sentenze né di pubblici roghi.
Scolpisco, dentro la sostanza lattiginosa e languida della mia anima, frammenti di un tempo invisibile, di speranze silenziose e tremanti. E la linea che generava eventi asincroni e cacofonici, dove io ero sempre in un luogo e in un tempo diversi da quelli desiderati e immaginati, si trasforma ora in un punto, dove tutto è. Senza distanze, senza incongruenze, senza dicotomie, senza convulse corse e logoranti attese.
Gli elfi, con i loro cappelli obliqui e tintinii di fragorose facezie, escono dalle pagine aride e consunte delle fiabe per diventare scintille di sogni che scherniscono la realtà, avviluppandola con seducenti profumi di meravigliosi paradossi.
Il limite stabilito viene superato. Basta scegliere la temerarietà. Basta scegliere di sciogliere il nodo scorsoio che ci lega all’àncora di paure che spezzano il respiro e la fantasia.
Il nostro veliero può rimanere per sempre attraccato a un porto conosciuto che non cangia mai.
Facciamoci invece pirati intrepidi e impudenti; percorriamo l’oceano della vita a caccia di scorribande palpitanti e tumulti travolgenti.
Buttiamoci, come tuffatori pazzi e sconsiderati, a capofitto giù dalla rupe, per volare altrove, oltre ciò che viene considerato possibile. Le nostre ali non sono di cera: il sole ne è la quintessenza, non le brucia, anzi, ne alimenta la consistenza.
Ogni sguardo ci porta sempre più in alto.
Credevo di essermi affacciata a contemplare i ricordi di un tempo che fu. E invece ciò che sto guardando deve ancora avvenire, eppure è già accaduto.
E’ un gioco sublime e ambivalente di specchi e di audaci e rocamboleschi balzi, avanti e indietro, nell’anima e nel tempo. E percorro viaggi emozionanti e imprevedibili, accovacciata dentro un pallone aerostatico indaco che mi avvolge e mi protegge come un ventre materno.
Attingo a quello sconfinato serbatoio di bellezza che scioglie i grovigli degli Io caparbi e accartocciati dentro grumi di stoltezza, e raccolgo la linfa segreta che dona acqua al fiume, aria ai polmoni, sangue alle vene, luce agli occhi, inesauribile e fantasmagorica fonte di vita.
domenica 12 luglio 2009
L'ARTE COME ESPRESSIONE DELLA SPIRITUALITA'
Giordano Bruno, “Explicatio triginta sigillorum”
“La nostra anima si sta risvegliando da un lungo periodo di materialismo, e racchiude in sè i germi di quella disperazione che nasce dalla mancanza di una fede, di uno scopo, di una meta. Non è ancora svanito l'incubo delle concezioni materialiste, che consideravano la vita dell'universo come un gioco perverso e senza peso. L'anima si sta svegliando, ma si sente ancora in preda all'incubo. Intravede solo una debole luce, come un punto in un immenso cerchio nero.”
Wassily Kandinsky, “Lo spirituale nell'arte”
L'arte è da sempre espressione dell'ineffabile, è un insieme di simboli e archetipi universali, è il principale mezzo ermeneutico per decifrare la realtà che ci circonda in chiave metafisica. Essa attinge i suoi codici dal mondo fenomenico e tangibile, ma poi li trasforma e li arricchisce, operando un processo di ridefinizione semantica che conduce a scoprire significati nuovi racchiusi dietro significanti noti.
La valenza esoterica dell'arte (nel senso greco del termine, cioè come rivelazione del significato nascosto delle cose) è nota fin dall'antichità. E spesso sacralità e arte viaggiano di pari passo.
Il legame indissolubile tra misticismo, simbolismo e immagine è largamente presente nelle filosofie gnostiche e teosofiche.
Nella Cabala ebraica, ad esempio, l'unità di Dio si manifesta nelle sue Sefirot, espresse mediante l'uso di immagini simboliche ricorrenti, spesso attinte dalla tradizione del mito. Nella loro totalità le Sefirot formano “l'albero dell'emanazione”, che cresce verso il basso dalla radice, e che, a partire dal XIV secolo, veniva raffigurato come un diagramma contenente i simboli fondamentali di ogni Sefirah (basati su immagini matematiche e organiche). In alcune interpretazioni le Sefirot venivano rappresentate come sfere concentriche, mutuando la concezione cosmologica medievale di un universo composto da dieci sfere.
Altrettanto affascinante è lo studio della gematria (o permutazione numerica), che permette di scoprire correlazioni, analogie e nessi nascosti, poiché ogni parola ha un valore numerico equivalente alla somma dei valori numerici delle lettere che la compongono, e dunque una parola può essere sostituita da un'altra con lo stesso valore numerico. L'artista compie un processo molto simile a questo, svelando così i significati occulti che si celano dietro la superficie delle cose.
D'altronde una realtà interiore che trascende la nostra percezione immediata può essere espressa solo attraverso un insieme complesso di allegorie e simboli; e il modo più immediato e pregnante per rendere fruibili tali simboli è quello di rappresentarli visivamente.
In molte culture antiche, come ad esempio nell'Egitto dei Faraoni, la realtà percepibile non era altro che il riflesso di una realtà più profonda, nascosta e invisibile, e compito precipuo dell'arte era quello di interpretare e rendere intelligibile questa realtà latente. La spiritualità permeava ogni cosa, ogni aspetto della vita, era un fatto collettivo e sociale, e scienza, arte e spiritualità non erano in antitesi, bensì intimamente connesse e interdipendenti.
Max Heindel rende molto bene questo concetto ne “La Cosmogonia dei Rosacroce”:
“La vera Religione comprende tanto la scienza che l’arte, poiché essa insegna a trascorrere una vita equilibrata, in armonia con le leggi della Natura. La vera Scienza è artistica e religiosa, nel senso più elevato della parola, perché essa c’insegna a rispettare e ad osservare le leggi che governano il nostro benessere e ci spiega perché la vita religiosa conduca alla salute ed alla bellezza fisica. La vera Arte è educativa quanto la scienza, e la sua influenza è grande, quanto quella della religione. [...] La scultura, la pittura, la musica e la letteratura, c’ispirano il sentimento della bellezza trascendente di Dio, sorgente immutabile e meta di questo meraviglioso Mondo. Nulla, all’infuori di un così universale insegnamento, potrà mai rispondere in maniera permanente ai bisogni dell’umanità. Vi fu un tempo in cui, in Grecia, la Religione, l’Arte e la Scienza erano insegnate congiuntamente nei Templi dei Misteri".
Max Heindel, “La Cosmogonia dei Rosacroce”
La contrapposizione inizia a profilarsi con l'Umanesimo e il Rinascimento, per consolidarsi definitivamente con la nascita della scienza moderna e dell'epistemologia scientifica, in particolare a causa dell'approccio razionalista propugnato da Cartesio, che influenzerà tutto il pensiero scientifico e filosofico fino al XVIII secolo.
Dunque la visione panteistica, olistica ed esoterica propria delle culture antiche è stata soppiantata, dal Rinascimento in poi, da un approccio positivista e materialista, che spesso ha ridotto l'arte a una mera rappresentazione del reale tout court.
A ciò si è aggiunta, soprattutto tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, in seguito alla nascita della psicologia moderna e della psicoanalisi freudiana, una tendenza a focalizzarsi maggiormente sulla soggettività, che ha portato a un solipsismo esagerato nel modo di concepire la spiritualità, conducendo la dimensione intrasoggettiva all'iperbole, a scapito di quella sociale.
Ma il Novecento è anche il secolo delle “sovversioni” artistiche e delle avanguardie (Futurismo, Cubismo, Scuola Metafisica, Surrealismo), della riscoperta di quel senso profondo, arcano ed esoterico che si cela dietro la realtà immanente e apparente, e che l'arte tenta di svelare e scandagliare.
E quale altro colore meglio dell'indaco può incarnare e richiamare il concetto di spiritualtà?
Nelle filosofie tradizionali indiane esso è associato al sesto Chakra (Terzo Occhio di Shiva), che rappresenta l'intuizione, l'elevazione spirituale e la capacità di “vedere oltre”.
Nella simbologia religiosa islamica l'indaco denota prestigio e nobilità.
E indaco sono detti i bambini “eletti”, gli esseri illuminati chiamati a scardinare la struttura del mondo conosciuto per condurre l'umanità a uno stadio di coscienza suprema.
Questa mostra accoglie e raccoglie la sensibilità artistica di quindici artisti italiani (tredici pittori, una poetessa e un fotografo), ognuno con caratteristiche espressive e concettuali squisitamente personali e uniche, ma tutti con un comun denominatore: il desiderio di comunicare, attraverso l'arte, il proprio universo interiore e spirituale, per giungere, come direbbe Giordano Bruno, agli “infiniti universi et mondi”.
Perchè l'artista è un demiurgo (nel senso platonico del termine) che, come affermò Arthur Rimbaud, deve farsi veggente.
“Lo spettatore che accoglie l'euritmia solo come godimento artistico non ha affatto bisogno di conoscerne le leggi, come non è necessario conoscere contrappunto o armonia o altre teorie musicali per godere la musica. Ciò è ovvio per il godimento artistico di ogni arte, poiché è insito nella natura umana che l'uomo sanamente dotato possieda a priori quelle facoltà artistiche necessarie per accogliere l'arte che, in quanto arte, agisce per forza propria.
Chi però, eseguendo l'euritmia, ha il compito di porla dinanzi al mondo, deve penetrarne l'essenza, come il musicista, il pittore e lo scultore devono penetrare nell'essenza della propria arte.”
Rudolf Steiner, prima conferenza sull'euritmia come parola visibile, 24 giugno 1924.
MARE DI PAROLE, OCEANI DI COLORI
Platone, Simposio
“Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare”
Jorges Luis Borges
Un mare.
Mare che si muove articolando sussurri e si intreccia alle sferzate del vento di libeccio.
Mare che nella notte inghiotte e intrappola tra reti di fioche lampare i sogni sospesi nel cielo, e li rigurgita all'alba sull'orlo iridescente della battigia, accoccolati tra le insenature eburnee delle conchiglie.
Sulla sua superficie irrequieta si increspano e incespicano orde di desideri che si accartocciano e si avviluppano tra loro, precipitano affondando tra gli abissi, per poi risalire coperti di salsedine e fradici di azzurro.
Le voci mute dei pesci guardano i pionieri temerari che si avventurano nell'imprevedibile languore del suo mistero come fossero schivi schiavi di romitaggi paradossali senza fine.
Le parole sono come sassi piatti che spezzano la quiete immobile, disegnando anelli concentrici dentro i quali si insinuano gli sguardi obliqui e audaci di segreti che sgranano tra le pupille lapilli di bellezza suadente e silente.
Una mano raccoglie le conchiglie sparse sulla sabbia, le ausculta, le strofina ripulendole dai detriti, le nutre di sole e le ripone dentro uno scrigno sommerso. Lì il tempo le consuma, ne divora l'involucro calcareo, fino a lasciarne intravvedere la loro anima nascosta. Quando la mano apre lo scrigno si sprigionano spirali di colori cangianti e fiumi di parole incandescenti.
Fiumi che portano al mare. Spirali che si arrampicano fino al cielo.
VOYELLES
A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali!
Un giorno dirò le vostre segrete origini:
A, nero vello sul corpo di mosche splendenti
Che ronzano intorno a crudeli fetori,
Golfi d'ombra; E, candori di vapori e tende,
Lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi d'umbelle;
I, porpora, rigurgito di sangue, labbra belle
Che ridono di collera, di ebbrezze penitenti;
U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari,
Pace di pascoli d'animali, pace di rughe
Che l'alchimia imprime sulle ampie fronti studiose;
O, suprema Tromba piena di strani stridori,
Silenzi attraversati da Angeli e Mondi:
O, l'Omega, raggio viola dei suoi Occhi!
Arthur Rimbaud
“Mare di parole” è l'ultimo progetto artistico di Ciro Palumbo. Un progetto che mescola risonanze letterarie e metafisica pittorica, creando interessanti e suggestive commistioni concettuali, stilistiche e tecniche.
Le parole, nelle opere di Palumbo, diventano supporto su cui distendere e dipanare la fantasia. Un mare placido e accogliente di segni impalpabili, ricolmi di significati e ammiccamenti. Palumbo prende le parole e le ri-racconta, le ri-combina, rifacendosi a una lunga tradizione artistica che vede nel Novecento il secolo della “poesia visiva”, in cui le parole diventano anche immagini, slittando verso nuovi orizzonti semantici, e vengono arricchite e impreziosite attraverso la pittura, la cinematografia e le arti visive.
Una tradizione che vede il proprio geniale antesignano in Arthur Rimbaud, nella sua poesia veggente, struggente e ruggente, nelle sue vocali che acquistano valenze emozionali e cromatiche. Perchè la letteratura non interessa solo il senso della vista, ma solletica e risveglia anche gli altri sensi.
Il legame tra immagine e parola è atavico e affonda le proprie radici nella culla della civiltà: i geroglifici egizi sono un esempio di come, in molte società antiche, immagine e scrittura fossero intrinsecamente connesse. Il nostro alfabeto occidentale moderno, invece, contiene grafismi che non hanno nessun nesso con le immagini mentali, e il segno è una pura convenzione concettuale e autoreferenziale, che non rimanda a nessun codice visivo noto. Un astrattismo estremo, dunque, che ha creato, nella nostra cultura, un divario enorme tra linguaggio e rappresentazione.
Palumbo prosegue un cammino intrapreso dai futuristi e ricalcato poi dai surrealisti, dai dadaisti e dalla pop art. Riprende l'affascinante tradizione del calligramma, un genere di poesia che risale all'antichità classica (il tecnopegnio di Simmia di Rodi, IV sec. a.C), che si sviluppa nei secoli XV e XVI, con la poesia figurativa umanista, fino ad essere ripreso dalle avanguardie artistiche del novecento, e che trova in G. Apollinaire uno dei suoi più celebri esponenti.
Questo genere letterario coniuga esigenze dialogiche e risonanze figurative, assemblando i significanti in modo da creare architetture grafiche bizzare e bizzose, dando vita a un “versilibrisme” affascinante e paradossale.
Nelle tele di Palumbo non ci sono cannoni che sputano lettere, come in G. Severini, nè vortici di parole, come in F. Depero; la sua poetica si differenzia dal movimento futurista, sia dal punto di vista concettuale, sia dal punto di vista formale, perlustrando diverse sfaccettature del binomio pittura-letteratura.
“Cara immaginazione, quello che più amo in te è che non perdoni.
La sola parola libertà è tutto ciò che ancora mi esalta. La credo atta ad alimentare, indefinitamente, l'antico fanatismo umano. Risponde senza dubbio alla mia sola aspirazione legittima. Tra le tante disgrazie di cui siamo eredi, bisogna riconoscere che ci è lasciata la massima libertà dello spirito. Sta a noi non farne cattivo uso. Ridurre l'immaginazione in schiavitù, fosse anche a costo di ciò che viene sommariamente chiamato felicità, è sottrarsi a quel tanto di giustizia suprema che possiamo trovare in fondo a noi stessi.”
André Breton, Manifesto del Surrealismo
Nelle opere dell'artista torinese la letteratura si veste di un senso mistico e onirico, è un ordito che intesse ancestrali memorie, miti e leggende, è una chiave per aprire le porte socchiuse dell'inconscio e del Sogno. La parola non è esplosione fragorosa, gioco dinamico e concitato, ma diventa simbolo lieve che si affaccia sulla realtà interiore piuttosto che sulla realtà esteriore, è forza centripeta anziché centrifuga, e rappresenta universi metafisici e surreali, che affondano le proprie radici nell'intimità dell'individuo, nel suo mondo segreto e nascosto, in bilico tra inconscio soggettivo e inconscio collettivo.
Letteratura e pittura si intersecano e attingono l'una dall'altra, giocano a rincorrersi, a specchiarsi reciprocamente, a scambiarsi stilemi e paradigmi, e l'intreccio che ne sortisce è un'alchimia suggestiva, evanescente, delicata.
La parola possiede anche una sua estetica visiva e formale, così come l'immagine racchiude in sé sprazzi di poesia e lirismo.
ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l’anima che non sa più dare un grido.
Ora i minuti sono eguali e fissi
come i giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d’acqua che rimbomba.
Un altro, altr’acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell’ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s’appressa
l’ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s’infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.
Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m’ode
salpa già forse per l’eterno.
Eugenio Montale, Ossi di seppia, Meriggi e ombre, Casa sul mare
Il connubio crea equilibrismi arditi, logiche dialogiche, contaminazioni che fondando un linguaggio nuovo, che non è solo sintesi degli elementi, ma qualcosa di più. Il potenziale espressivo non aumenta solo in termini quantitativi, ma anche, e soprattutto, sotto un profilo qualitativo.
L'impiego di collage di pagine di libri sulla tela crea un effetto visivo di stratificazione e sovrapposizione di pensieri, sogni, storie e immagini, che, concettualmente, rimanda a una radice originaria che restituisce senso al presente. E' un modo di raccontare, attraverso il potere evocativo della pittura, ciò che a volte sfugge all'affabulazione pura, di ampliarne l'effetto catartico e proiettivo e di incrementarne la forza narrativa.
Un mare di parole dipinte dove fluttuano i sogni, zattere salvifiche che dispensano riparo dalle tempeste; un mare dove si recupera il filo rosso dell'esistenza, dove lo spettatore può voltarsi e guardare da dove viene e al contempo, proprio in virtù di ciò, può immergersi negli abissi del proprio essere, nel proprio tumultuoso e magmatico oceano, intraprendendo un viaggio infinito e incessante, un'odissea epica, misteriosa e incalzante.
E se si riesce a oltrepassare Scilla e Cariddi significa che l'isola è vicina, che il tempo può essere ingannato, che il canto delle sirene non ha mistificato i desideri e offuscato la rotta.
“[...]
Sul mare salato
si posa la luce e sui campi
d'ogni parte fioriti, e la bella
rugiada discende e le rose
fioriscono e i cerfogli
delicati
e il meliloto spruzzato
di bianco.
[...]
Saffo, poesie d'amore, 96. V.
“Più di quanto sia lecito,
più di quanto sia possibile,
come
un delirio di poeta incombe nel sogno,
enorme si fece il groppo del cuore,
enorme l'amore,
enorme l'odio.”
[...]
Vladimir Vladimirovic Majakovskij
“Chi può capire qualcosa della dolcezza se non ha mai chinato la propria vita, tutta quanta, sulla prima riga della prima pagina di un libro?”
Alessandro Baricco, Castelli di Rabbia
“I nostri sogni e desideri cambiano il mondo”
Karl Popper
“Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare”
Seneca
La notte impone a noi la sua fatica
magica. Disfare l'universo,
le ramificazioni senza fine
di effetti e di cause ch si perdono
in quell'abisso senza fondo, il tempo.
La notte vuole che stanotte oblii
il tuo nome, i tuoi avi e il tuo sangue,
ogni parola umana e ogni lacrima,
ciò che potè insegnarti la tua veglia,
l'illusorio punto dei geometri,
la linea, il piano, il cubo, la piramide,
il cilindro, la sfera, il mare, le onde,
la guancia sul cuscino, la freschezza
del lenzuolo nuovo...
Gli imperi, i Cesari e Shakespeare
e, ancora più difficile, ciò che ami.
Curiosamente, una pastiglia può
svanire il cosmo e costruire il caos.
Jorges Luis Borges, Il sogno
mercoledì 25 febbraio 2009
“LE CINQUE ROSE DI JENNIFER”
La regia è di Arturo Cirillo, anche interprete dell’opera insieme a Monica Piseddu.
Atto unico estremamente denso di sfaccettature, ombre, pathos e contrasti.
Il piano del reale scivola sui binari di un’improbabilità a tratti illusoria e penosa, a tratti riottosa e cupa.
In una stanza esageratamente posticcia, brulicante di fiori, vestiti e oggetti artefatti e pomposi, canzoni melense di Patty Pravo e Mina, si consuma il dramma di un travestito napoletano, avviluppato tra le ragnatele di una menzogna dolce-amara che accarezza e al contempo schiaffeggia la sua indefinita e nebulosa identità.
L’ambiguità aleggia dall’inizio alla fine dello spettacolo, mescolata sapientemente a una sottile ironia che stempera e attenua il dramma di un’inesorabile solitudine.
L’interpretazione che Cirillo dà dell’opera, accentua da un lato l’aspetto grottesco, e dall’altro l’ambivalenza che avvolge l’intera vicenda.
Jennifer attende inutilmente e disperatamente la telefonata di un amante, che mai giungerà, e, per beffa della sorte, il suo telefono squilla in continuazione, a causa di indesiderate “interferenze”. Il fantomatico amante, nella fantasia di Jennifer, è sempre in procinto di arrivare, e lei deve essere sempre in ordine ed “elegante”, pronta per accoglierlo. Così Jennifer, che ricorda molto la Prinçesa di Fabrizio De Andrè, inganna se stessa costruendo un mondo parallelo, fittizio e illusorio, che la distragga dalla crudezza di una realtà dura e dolorosa, quella della solitudine, appunto. In alcuni momenti l’attesa diventa un gioco, una tensione ammiccante e stuzzicante, in altri momenti, invece, diviene un supplizio snervante.
L’unico vero incontro di Jennifer è con il suo “doppio”: Anna, un altro transessuale. E qui il gioco dell’ambiguità si fa ancora più intrigante ed enigmatico, in virtù della scelta registica di far interpretare Anna a un’attrice e grazie anche a uno scambio di vestito, quasi a voler accentuare l’ambivalenza dell’identità sessuale.
E il tutto viene condito da sordidi delitti compiuti da un misterioso serial killer che, dopo aver massacrato le sue vittime (tutti travestiti!), lascia sui loro corpi, come macabra “firma”, cinque rose rosse.
Cirillo e Piseddu si dimostrano, in questo ruvido e sarcastico dramma, attori di estrema finezza interpretativa, grande espressività e notevole comunicatività.
La regia è accattivante e interessante, e la scenografia riesce a trasmettere alla perfezione quell’atmosfera in bilico tra il losco, il patetico e l’equivoco, che l’autore voleva esprimere.